poco ho da dire
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Presentazione

  
poco ho da dire
il silenzio
la parola
l'immagine
per sancire
il legame più intimo
nel cuore dell'uomo

Cominciamo, canonicamente, dal titolo, che suona come una professione di modestia.  Modestia, secondo me,  eccessiva.
Mi avrebbe sorpreso di meno un titolo come “Poco ho da aggiungere”,  che lasciasse meglio sottinteso il molto che è stato già detto e fatto da entrambe le autrici, quindi ormai storicizzato, per così dire, depositato com’è nei rispettivi percorsi di scrittura poetica e di arte dell’immagine.
Antonietta Lestingi, che per professione insegna scienze, ha al suo attivo le raccolte poetiche Fotogrammi (1998), Coniugando tracce(2000)  con Maria La Volpe, Il volto delle donne (2002), In punta di dita (2008), per citare le cose più importanti.  
Maria Grazia Napoletano  può vantare esperienze artistiche diversificate, avendo esordito in una casa di moda, avendo frequentato architettura  a Venezia, dove s’è laureata  con una tesi di Laurea sulla Peggy Guggenheim Collection; ha vinto ex-aequo il premio Soroptmist sul tema "Innovazione e/o Conservazione ", per approdare infine all’insegnamento che, a suo dire, la gratifica molto. Ha partecipato a numerose mostre di grafica conseguendo riconoscimenti importanti, ha pubblicato grafiche  sotto il titolo La via della vita.
Davanti a questi curricoli, in primo luogo, mi pare opportuno precisare che il frutto di questa fatica collaborativa nasce dalla confluenza di due percorsi di ricerca già da tempo avviati e già ricchi ciascuno di per sé.
Poi però, leggendo, ci si rende conto che il ‘poco’ del titolo non si riferisce in prima istanza alla ‘quantità’ di messaggio, affidato alla doppia cifra del verso e del segno grafico, quanto piuttosto alla forma, in entrambi essenziale. La riduzione all’essenziale è infatti operazione distintiva che balza subito agli occhi in questo testo: sia nella sua esilità, sia nella scelta del genere poetico degli hayku col loro fulmineo giro di versi brevi, sia nel tratto compositivo dei disegni stessi, che tendono a sfumare spesso e volentieri nel bianco della pagina, lasciando a chi guarda il compito di comporre idealmente il resto.
Già  questa prima osservazione certifica un’intima consonanza di sentire e di intenti nelle due autrici, le cui rappresentazioni non possono perciò ridursi a reciproco “corredo”, ma vanno considerate strutturalmente complementari nel  formare un unico discorso, improntato al togliere anziché al mettere, al selezionare, al ridurre, al suggerire piuttosto che al dire. Per cui la ricerca di essenzialità, evidente sul piano formale, si riversa subito sul piano del messaggio, e lascia intuire un’operazione ben più profonda, che è quella della selezione referenziale nella scelta dei contenuti, delle indicazioni di chiavi di lettura.
Insomma, il ‘poco’ è ciò che viene promosso sulla carta dopo una spietata rimozione del superfluo a monte, è la pepita che rimane dopo la cernita dalle scorie, dopo la decantazione dalle impurità. E questa non è cosa trascurabile nell’interpretare l’intera operazione, perché è una vera e propria spia di poetica: dice che cosa rimane di importante, di irrinunciabile, cosa vale la pena lasciar scritto dopo gli attraversamenti della propria storia umana e artistica, dopo i vissuti impregnati di dolori, passioni, scelte, conquiste, perdite, ripensamenti, esaltazioni, delusioni.  Vi si denuncia la tensione a catturare, con limpidezza di verso e fermezza di segno grafico, la purezza di ciò che sinceramente si crede, si ama, si vuole. Può non piacere, ma è una poetica coerente. Una medesima  poetica declinata in due linguaggi.  
Abbiamo visto alcuni disegni ed ascoltato alcuni versi deliberatamente messi nel testo a fronte. Per comodità di approccio, vediamone ora  alcuni separatamente.

Tra le pagine 21 e 39, si sgrana una decina di hayku senza alcun disegno a fronte.  Un  specie di ‘a solo’, una specie di testo nel testo.  Con pudore, ma anche con decisione, essi  si concentrano sull’io poetico e ne tracciano con pochissimi tratti una sorta di profilo essenziale. 
Torna in evidenza, certo,  la profonda sintonia con la natura e con le sue epifanie, tema caro alla Lestingi, ricorrente nelle sue liriche anteriori e qui risaltato dal brevissimo giro dell’hayku, in cui il riferimento naturalistico è quasi d’obbligo per statuto letterario. Ma l’elemento naturalistico, quando c’è,  è pur sempre metafora dell’io e degli stati d’animo. Del proprio essere “ora e qui”.

“Allo stupore/ che il pesco rifiorisca/ sono tornata”

Come si vede, il baricentro della enunciazione poetica sta nella capacità/possibilità di tornare a stupirsi, quasi in una ritrovata virginale meraviglia di fronte ad un evento naturalistico annuale e per molti abitudinario come il ritorno della fioritura. Ed è un doppio stupore: per la oggettiva bellezza del pesco fiorito  e per la sorpresa che la coscienza ha di sé, nello scoprirsi ancora capace di resistere all’azione narcotizzante dell’abitudine.

“Perdutamente/ librata dentro un libro/ sono vissuta”

Ecco tracciato  un preciso bilancio esistenziale, in cui non hanno peso il dare e l’avere, le cose afferrate e quelle perdute, ma importa la ‘qualità’ di quel vivere, raggiunta in seguito ad una scelta da cui ogni altra alternativa è stata a suo tempo provvidamente scartata, e che risarcisce oggi la coscienza  con una sottile, compiaciuta ebbrezza di libertà (si noti la felicissima allitterazione librata dentro un libro).    
 

“Dolore a sorsi/ dammi mio Signore/ d’ora in avanti”.

Dove  l’io appare invece proiettato nell’attesa di un futuro in cui la componente del dolore non può mancare, perché costitutiva del vivere, ma con l’auspicio che, a differenza del passato, esso giunga dal cielo in misura umanamente sopportabile, intervallato da momenti di respiro.

“Sempre ho cercato/ bellezza e verità/ quando le avevo”.

Può apparire paradossale cercare cose che già si possiedono, ma  questa follia, tutta umana, denuncia qui una fragilità ed insieme una forza: cercare due valori sommi, (bellezza e verità, spesso in contrasto per altri) con tale ansia da non accorgersi di averli già nel proprio mondo, nel proprio modus vivendi .

“Nulla la gatta/ fa per compiacermi./ Perciò mi piace.”

Dove è trasparente la proiezione d’una consapevole raggiunta libertà dell’io nel carattere notoriamente indipendente del felino.
La gatta è, curiosamente, l’unico soggetto fuori tema, per così dire, dei disegni di Mariella in questo testo.  E il soggetto forse è stato proprio l’hayku a suggerirlo.  Tutti gli altri disegni rappresentano oggetti in vetro o altro materiale fragile.
Abbiamo già ricordato il carattere di questo segno grafico, sicuro nel dare contorno e consistenza tridimensionale  agli oggetti, ma insieme sfumato e spesso assorbito in parte dal bianco della pagina.  Quasi a suggerire un invito a completare, colorare, manipolare, rivolto al fruitore, a metterci insomma le mani, oltre che gli occhi, a farsi co-artista.  Una caratteristica che Eco, in un celebre saggio di molti anni fa, chiamava ‘opera aperta’ .
Fermiamoci un attimo ora sulla scelta tematica dell’oggetto fragile.  Immaginiamo facilmente quanto questi oggetti siano fragili ai colpi, agli urti traumatici, alle cadute. Spesso però ci sfugge che essi, se da questi eventi vengono messi al riparo, sono anche resistenti nel tempo.  Lo testimoniano i tanti reperti museali vitrei o fittili, giunti dall’antichità fino a noi insieme ad oggetti di metallo, e spesso meglio di questi conservati.
Allora ci vengono in mente altre qualità: gli oggetti qui rappresentati non sono solo fragili ed insieme resistenti nel tempo; sono anche di forma elegante, semplice, sono anche umili ed utili per il loro uso quotidiano, hanno contorni essenziali, tanto che i ramoscelli contenuti in alcuni di essi, o ad essi accostati, sembrano germogliare dai loro i loro profili accurati, dalle loro curve esatte con la stessa naturalezza con cui si tendono dagli alberi, dai cespugli, dalla terra.

Se ora mettiamo insieme questi dati visivi: essenzialità, semplicità, umiltà, delicatezza, fragilità, immutabilità nel tempo, e li trasferiamo ai connotati esistenziali prima ricavati dalla lettura degli hayku di Antonietta, troveremo, credo, una evidente somiglianza.  Così evidente, questa somiglianza, che mi sembra perfino imbarazzante additarla come una scoperta.  
Allora diciamolo senza più girarci intorno: il profilo dell’io poetico disegnato, verso dopo verso, dagli hayku di Antonietta (un io spoglio del superfluo, delicato, temprato dal dolore, teso alla ricerca del bello e del buono, liberato e decantato dalle grandi passioni della giovinezza, raffinato da una ferrea disciplina sentimentale, aperto), questo io, è connotato da tratti introspettivi analoghi a quelli visivi degli oggetti accarezzati dalla matita di Mariella:  delicati e resistenti, umili ed utili, essenziali e necessari, messi lì come un’offerta alla sensibilità del fruitore di cui si invoca una sintonia estetica.  
E per concludere:

            “ Sono nel letto/ dimentica del fuoco/ e della neve”


Mi pare che questi versi, posti quasi all’inizio della raccolta, ci offrano la migliore chiave di lettura del percorso interiore compiuto dall’autrice e del punto di arrivo, di equilibrio, a caro prezzo raggiunto, tra le passioni estreme della giovinezza (il fuoco) e la “divina indifferenza” cui aspirava Montale (la neve).  Ma sarebbero versi in qualche modo inquietanti, si potrebbero scambiare per un richiamo all’inerzia, all’afasia, all’immobilismo  (sono nel letto), se non ci fosse accanto il disegno di un paio di occhiali da lettura, strumento di un otium  laborioso e fecondo, da cui è nato questo “poco da dire” dato alle stampe, e da cui ci auguriamo nascano ancora altre pagine come queste.

 

Francesco Carmine Tedeschi

Recensione

  
poco ho da dire
il silenzio
la parola
l'immagine
per sancire
il legame più intimo
nel cuore dell'uomo

“poco ho da dire” è un libro che si sfoglia, che si legge, che si “mangia” in pochi riflessivi minuti.
Si resta in pausa per comprendere quali effetti ha operato sull’anima.
I disegni, che ci segnalano soggetti da “still life”, motivano segni garbati, defilati, sottili, che accompagnano, ma non troppo, pensieri in libertà; insomma, fanno spazio, quasi, a occidentali “haiku”.
L’ “esprit” del mondo si può racchiudere in pochissimi versi, in frammenti rapidi, in segmenti velocissimi in cui può scorrere sovrano.
Il senso della vita, se c’è senso nella vita, si può nascondere quanto enucleare in tre righi di assoluto rigore poetico e di suprema bellezza catartica.
Nel pensiero ci si può trovare quanto ci si può inoltrare per scappare; si può stabilire di “aggredire” la vita quanto di ammorbidirla escludendosi nell’astrazione.
Ci sono piaciute, però, di più quelle pagine scritte che avevano la pagina bianca di rispetto quanto le pagine disegnate che avevano la pagina bianca di rispetto.
La parola è poesia quanto il segno è poesia; meritano, ripetiamo meritano, di essere su piani paralleli.
Più che di contaminazione, si può parlare in questo caso di associazione; nascono, così, le canzoni o libri, appunto, come questi che nei suoi squarci seduce il nostro spirito.
La nostra sensibilità di lettore incontra per empatia messaggi nobili.
Sensibilità si sono coordinate non per incidere icasticamente, ma grazie all’agile verbo e al misurato segno in “convergenza parallela”, hanno strutturato un’aguzza, affilata, capillare bilancia di stimoli per arrivare a concretizzare un equilibrio interiore.
Margherita Gigliotti in una pregiata post-fazione “L’immateriale degli oggetti, il visibile delle parole” segnala, tra l’altro, di vibrazioni che s’incrociano e che sommandosi producono un piccolo miracolo di alterità e di alterazione che conduce ad effetti inaspettati, che tastano l’ombra delle cose.
Margherita Gigliotti è nata a Salerno, ha vissuto a Roma e a Berlino, ora vive a Milano.
E’ insegnante di tedesco all’Università Cattolica.
Ha tradotto opere di Else Lascher-Schiller e ha pubblicato la raccolta di poesie Movimenti in pianura. Scrive racconti.

 

Maurizio Vitiello
 
 

Postfazione

 

L’immateriale degli oggetti, il visibile delle parole

Su una pagina un haiku, sull’altra un disegno; alle volte l’ordine cambia. Ogni haiku, come ogni disegno, ha qualcosa da dire, come l’avrebbero anche se questo libro fosse diviso in raccolta poetica e quaderno d’artista. Ma fortunatamente il libro è uno. Antonietta Lestingi e Maria Grazia Napoletano offrono anche a noi lettori, oltre che a loro stesse, una terza possibilità.

Non che ci rendano la vita facile, anzi. Il risultato del loro incontro non lo troviamo nero su bianco, dobbiamo andarlo a cercare nello spazio invisibile che sta tra una pagina e l’altra. Per un attimo, le parole vibrano dentro di noi richiamando scenari, procedimenti del pensiero, costellazioni. Vibrano anche i calici che, insieme alle altre suppellettili ritratte, ci introducono a una sensibilità da esplorare attraverso forme, luce, tratteggi. Due vibrazioni che si incrociano e sommandosi producono - piccolo miracolo di alterità e di alterazione - effetti inaspettati.
Come ad esempio quello di ammorbidire e stemperare, nell’orizzontalità carezzevole e atemporale del segno grafico, i tratti distintivi di una poesia-pensiero dai forti contrasti: tra pensiero stesso e oggetto, tra movimento e stasi, alto e basso, presenza e assenza, e caratterizzata anche, nell’adesione alla forma poetica breve, dall’amore per il para­dosso. Ricordi dalle tinte accese come il fuoco e la neve si rarefanno, attraverso un paio di occhiali-cornice, in una sensibilità che va oltre il vedere stesso, tasta l’ombra delle cose, il segno fugace che esse lasciano. Come le volute nel fondo di un bicchiere ormai vuoto, unica impronta-figura di un Io che sia in grado di percepire, simultaneamente, lo squillo del telefono e il proprio “non esserci”.

E ancora: non ci sono ali, non quelle di cui si parla in un haiku, nel disegno correlato; eppure la messa a fuoco ravvicinata sulla circonferenza di un vaso trasparente, presunto centro dell’attenzione, vitreo e acquoso riflesso dove le forme vegetali svaniscono e lo sguardo si libera verso l’alto e il basso della superficie, “fanno volare”. Forse svaniscono, nella fata morgana di forme e di fiori, anche gli interrogativi che la poesia pone, distinzioni e meraviglie di volatili, dal momento che ciò che conta è l’idea di volare.

La spinta verso l’alto e oltre il visibile è caratteristica dell’effetto che le parole hanno sui disegni. Scegliendo e proponendo scenari, giungendo in brevi spazi tripartiti a seppur provvisorie verità, esse enfatizzano le piccole ombre inquiete sotto le foglie e alle imboccature delle bottiglie, gli appunti di profondità, debito di ogni disegno, per quanto lieve e luminoso, verso l’oscurità; interrogano l’attesa di uno slanciato e arcaico lumino a olio, ormai spento e senza le “ore” che il testo segna da soleggiate altezze; muovono, con la sapienza del contrasto che nasce dal pensiero e dice le cose come appaiono e come sono, la pacifica immobilità di oggetti colti nella loro quotidianità, casuali fecalizzazioni visive di una mente fervida e impegnata altrove.

Nei vasi e in altri delicati quanto familiari contenitori le parole appunto tra-vasano il salto mortale dell’immaginazione e della molteplicità del sentire: chi direbbe che la fragile trasparenza e rotondità di una boccia di vetro merlettata può consolare? Almeno tanto quanto una mano dalla quale un Io affranto e tuttavia sognante, come la fantasia poetica concede, si senta “raccolto”.

I disegni, dal canto loro, non sciolgono gli enigmi che gli haiku pongono, ma ne àncorano il moto ascensionale e riconducono le parole al lato terreno delle cose. C’è un’alternativa all’aut-aut del pensiero, sembra dire una vezzosa tovaglietta posta a copertura di una brocca, bonaria controfigura dell’astratta “velina” della poesia che l’affianca. Tra astrazioni e delusioni, aspirazioni e nostalgia, terra e cielo, tertium datur.

Alle parole che sono come un grido silenzioso, “fili appesi” di legami e consapevolezze, il disegno offre, non il colore, ma il ricordo dei colori di un pomeriggio assolato e rimasto sospeso nella spinosità di un cardo; offre non la terrigna corposità dell’argilla tornita, ma le linee e i riflessi che ne rievocano la curvatura e la smaltata bellezza, l’anima stessa della decorazione.
La bellezza, rivela del resto una delle poesie, fa compiere gesti intimi, doni segreti di bouganville. Sono custoditi, in questo libro, da un domestico mortaio e dal suo pestello reclinato verso il fondo della pagina, tempio e colonna di un momento di grazia, di un immateriale omaggio ai pensieri che ci muovono.

Margherita Gigliotti
 
Scheda bibliografica
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Autore

Lestingi Antonietta e Maria Grazia Napoletano

Titolo poco ho da dire
Editore Edizioni Viverein di Monopoli (BA)
ISBN 9788872633328
Prezzo s.p.i.
data pub. luglio 2009
In vendita presso:
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