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 Benvenuti a Mola di Bari


La Terra di Mola, è stata sempre abitata sin da quando le terre italiche emersero dal mare. Un vero e proprio villaggio dovette esistere al tempo dei Peuceti, ma le violenze e le avversità dei secoli successivi determinarono lo sgretolamento di quelle modeste case. Dopo le distruzioni operate dagli stranieri invasori, spesso popoli barbari, gli abitanti di Mola si dispersero per le campagne secondo una regola ormai comune in tutto il mondo feudale italico. Come in tutto il Mezzogiorno, le terre furono di proprietà dei pochi latifondisti ai quali si rivolgevano i contadini affamati chiedendo di essere ammessi come coloni per coltivare piccoli appezzamenti a mezzadria. In breve tempo, anche i latifondisti si trasformarono mirando, non soltanto all’attività boschiva e pastorizia, ma anche alla cura di appezzamenti di terreno coltivati- a legumi, a frutteto ed a frumento- direttamente dai coloni. I contadini, divenuti coloni, risiedevano ormai nelle terre del padrone al quale davano la metà del raccolto. Anche il ricco proprietario spesso si trasferiva nelle sue terre costruendovi una residenza chiamata “villa”, attorno alla quale sorgeva una piccola comunità dei coloni con le loro piccole case, nelle vicinanze della cappella dove un parroco diceva le sue messe e amministrava i sacramenti, soprattutto battesimi e matrimoni.

Molto probabilmente alla fine del primo millennio la Terra di Mola aveva una “popolazione” diversificata per ubicazione e per attività. Così, nello spazio costiero compreso tra il Torrione ed il Castello vivevano alcune famiglie di pescatori che costituivano l’antico nucleo del borgo abitato; un nucleo di piccola importanza che non ebbe mai un appellativo attribuito ai centri più rilevanti (castrum, civitas; soltanto nell’opera di Guidone si ritrova l’appellativo di oppidum Moles). Nelle campagne circostanti erano ubicate le antiche comunità degli abitatori di grotte e le comunità delle ville, con le abitazioni dei contadini e dei mezzadri attorno ad una casa signorile e l’annessa chiesa per le funzioni religiose.

Tale conformazione della Terra di Mola è comprovata dai seppur pochi documenti ritrovati: l’atto notarile del 1077 con il quale un certo Mele, figlio di Colaianni di Bari, assegnò a suo figlio Stefano le proprietà possedute a Mola (pertinenti in  Maule); il documento riportato nel Codice Diplomatico Barese, del 1123, con il quale Grimoaldo Alfenarite donò alla Basilica di S. Nicola diversi poderi ed una chiesa esistenti in Mola (in partibus Mauli); si può ipotizzare che in una di quelle ville morì il misterioso Agosmundus nel 1150 e poi seppellito nella chiesa Matrice, così come attesta la lapide murata nella Cappella del Santissimo; non può essere taciuto, inoltre, che nelle terre di Mola esisteva già un clero nel 1171 dipendente dall’arcivescovo di Bari (De Santis ne riporta il documento con il quale il clero di Mola viene ammesso alle funzioni della festività dell’Assunta nel turno del 18 agosto, unitamente a quello di Santeramo, Sannicandro e Binetto).
Durante la dominazione normanna, e quindi sveva, il piccolo porto di Mola era utilizzato per gli spostamenti sull’altra sponda dell’Adriatico o per i viaggi in Terrasanta. Sono notizie riferite da Giannone nella sua Storia civile del Regno di Napoli e riportate da De Santis nel suo libro.
Nel Cartularium Cupersanense si parla di un certo Chirico, figlio di Giovanni da Mola, che conferisce alcuni privilegi alla sua futura moglie, davanti a giudici ed al notaio, il giorno 31 gennaio 1244.
Matteo Spinelli, nei suoi Diurnali, riferisce che nel 1255 Manfredi, alla riconquista del regno, occupò alcune città costiere vicine a Monopoli, fra le quali Mola (molto probabilmente lo storico di Giovinazzo intendeva riferirsi a località abitate nelle quali fu lasciato un presidio militare).
Mola, quindi, prima della sua nascita ufficiale, era una realtà composita con piccole comunità separate fra loro, ma con un’origine e una tradizione comune: un piccolo gruppo di case nel borgo antico individuato come Oppidum Moles nell’opera di Guidone (Guidonis Geografica) pubblicata verso il 1117; piccole comunità rurali con villa, chiesa e case di coloni nelle campagne circostanti; abitanti delle grotte e delle antiche comunità basiliane.

Dopo l’allontanamento dei saraceni, la città di Bari, vicina agli interessi bizantini, prosperò con le crescenti attività commerciali. Gli scambi marittimi con il vicino Oriente favorirono la marineria locale che possedeva numerose navi sulle quali lavoravano i marinai emigrati dai vicini villaggi, compresi quelli della Terra di Mola e di Polignano. Emigrati avventurosi poiché il commercio marittimo non era esente da rischi e da incidenti: non di rado le imbarcazioni naufragavano per improvvise tempeste; altre volte le barche da trasporto e le galee erano prede di pirati saraceni. I redditizi commerci favorirono l’arricchimento di numerose famiglie e la città si abbellì di imponenti edifici e di magnifiche chiese.

I Baresi erano riusciti a contrastare i Veneziani nei commerci e negli scambi culturali in tutto il Mediterraneo orientale e non sopportavano più la condizione di inferiorità imposta dall’impero bizantino che aveva concesso alla Repubblica Veneta numerosi privilegi. Occorreva, quindi, il prestigio spirituale, da inculcare con un segno di culto, che consolidasse il prestigio economico, già segno del potere: a San Marco dei Veneziani vollero contrapporre un patrono altrettanto prestigioso, San Nicola di Mira.

Dalla Terra di Mola, come già detto, forse diversi marinai emigrarono a Bari, città che offriva tante occasioni di lavoro, confondendosi con le diverse comunità presenti nel borgo antico. E’ ragionevole pensare che nel viaggio a Mira, per il trafugamento delle reliquie di San Nicola, siano intervenuti marinai d’origine molese. Sappiamo che tra i 62 noti membri della spedizione non è citato alcun marinaio indicato come originario della terra di Mola, ma si ritiene per certo che nella famosa pergamena dell’archivio nicolaiano siano indicati soltanto quelli che beneficiarono dei privilegi concessi dall’Abate Elia. A tal proposito basta ricordare la recensione Beneventana di Niceforo che indica diversi marinai tranesi che non sono citati nel documento.

La conquista normanna della Puglia non produsse grossi cambiamenti nella struttura sociale ed economica della regione. I nuovi padroni determinarono una diversa distribuzione delle terre, ma non ostacolarono in modo evidente l’impero bizantino nei traffici commerciali che si erano instaurati.
La dominazione sveva può ritenersi l’insediamento non traumatico di nuovi padroni, i quali, peraltro, amavano la terra pugliese. Gli Svevi, tuttavia, furono coinvolti in rovinose guerre ed in grossi contrasti con gli altri potenti d’Europa. Fra i tanti nemici, il più accanito oppositore della casa sveva era il Papa, il quale, attaccato stabilmente al potere temporale, ambiva al possesso dei territori del Regno di Sicilia. L’abilità ed il prestigio di Federico II avevano impedito il coalizzarsi dei vari oppositori, ma la sua prematura morte rese insicura la continuazione del dominio svevo. Peraltro, subito dopo scomparve il legittimo erede, Corrado, e l’altro avente diritto, Corradino, era ancora un bambino.
Il governo del Regno fu assunto da Manfredi, il figlio di Federico II e di Bianca Lancia. Un re, nato nella terra pugliese, che aveva ereditato l’amore per la poesia e che aveva saputo farsi amare dalla popolazione del suo regno. Un sovrano generoso e di sane ambizioni che aveva promosso le libertà comunali nelle città dell’Italia del Nord, combattendo e determinando la vittoria di Montaperti.
La sua vera disgrazia fu d’essere inviso al Pontefice, il quale non mancò di scomunicarlo. D’altra parte Manfredi non poteva non irritare fortemente Alessandro IV quando volle intromettersi nella politica interna di Roma e quando si fece eleggere re di Sicilia senza il consenso del Pontefice. La situazione peggiorò dopo la morte di Alessandro IV e la salita sulla cattedra di San Pietro di Urbano IV.
Il nuovo papa era un francese devoto alla Francia per tanti motivi, non ultimo quello della cessione da parte di Luigi IX dell’Alta Provenza alla Chiesa, che permetteva  la sovranità dei papi su Avignone e sulle terre limitrofe. Urbano IV aveva già tentato direttamente di estromettere Manfredi dal Regno di Sicilia subendo una dolorosa sconfitta, ma deciso a realizzare il suo scopo offrì la corona di quel regno a Carlo, fratello del re di Francia Luigi IX.

Luigi IX era amato dal Pontefice non soltanto per la donazione dei territori innanzi citati, ma per la sua condotta morale e per le numerose attività a favore della Chiesa di Roma. Il re francese, quando i Tartari si erano impadroniti di Gerusalemme ed avevano massacrato gli abitanti, era gravemente ammalato, ma promise che appena guarito sarebbe partito per una Santa Crociata. Una volta risanato lasciò la reggenza del regno alla madre e si recò con un forte esercito alla volta dell’Egitto. La spedizione fu un disastro per le sconfitte e per la peste che decimava le sue truppe. Il re finì prigioniero e fu liberato con pagamento di un forte riscatto. Con la liberazione Luigi chiese ed ottenne le reliquie della Crocefissione, la Sacra Spina e parte della Vera Croce, poi custodite nella Sainte-Chapelle di Parigi.
(La Corona di Spine era stata data in pegno dall’imperatore di Costantinopoli ai Veneziani per le enormi somme ricevute in prestito. L’imperatore offrì le Sacre Reliquie a Luigi, il quale pagò i debiti  a Venezia e portò in patria i doni preziosi.
In seguito si fece una grande distribuzione di Spine della Santa Corona ed una di esse fu donata da Carlo d’Angiò alla Basilica di San Nicola di Bari).
Tornato in patria il re si adoperò per sagge riforme legislative incoraggiando la fioritura della vita comunale, combattè gli albigesi ed i valdesi che contrastavano la dottrina di Roma, introdusse l’Inquisizione per risanare “la vita religiosa” e fondò a Parigi il collegio teologico.
Nel 1270 s’imbarcò per combattere i musulmani che scorrazzavano nel Mediterraneo, ma ammalatosi di peste morì il 25 agosto. Dopo qualche anno Bonifacio VIII lo canonizzò 

A Luigi IX si rivolse Urbano IV per rimuovere l’odiato nemico ed offrì la corona del Regno di Sicilia a Carlo d’Angiò, fratello del re francese. Non fu una vera e propria offerta, poiché il buon pontefice si fece promettere fedeltà, una rendita di 40 mila once l’anno ed il possesso di Benevento.
Con la morte di Urbano IV nel 1268 gli successe un altro francese, Clemente IV, che rinnovò l’invito per una sollecita occupazione del mezzogiorno d’Italia.
L’ambizioso Carlo aveva già conquistato alcuni territori in Italia insediandosi stabilmente in un vasto territorio comprendente, tra le altre città, Alba, Cuneo e Mondovì. L’offerta del Pontefice era oltremodo gradita, ma di non facile attuazione per il valore del re svevo e del suo potente esercito. Non restava che chiedere aiuto al fratello, il quale inviò le sue truppe contro i comuni del Nord Italia per impedire un eventuale intervento a favore di Manfredi.
Le truppe francesi di Luigi IX e di Carlo d’Angiò, appoggiate da milizie papali, avanzarono inesorabilmente verso il Mezzogiorno d’Italia e la battaglia decisiva si ebbe nei pressi di Benevento il 26 febbraio 1266, dove l’esercito di Manfredi si trovò in evidente inferiorità dopo l’abbandono dei militari italiani al soldo dei baroni traditori (tra i quali il conte di Caserta ed il conte di Acerra, parenti di Manfredi); si mantennero fedeli allo svevo le forze tedesche e saracene che lottarono con valore al fianco di Manfredi, il quale morì combattendo con sprezzo del pericolo.
Quando i soldati francesi riconobbero il corpo del re nemico gli diedero umile, ma dignitosa sepoltura sul campo di battaglia, sotto un mucchio di pietre. Ma per la Chiesa si trattava di una profanazione del suolo cristiano, poiché Manfredi era morto scomunicato e l’implacabile arcivescovo di Cosenza Bartolomeo Pignatelli fece disseppellire il cadavere che fu gettato nel Verde (Liri), diciotto miglia oltre il confine del Regno (“Di fuor dal regno quasi lungo ‘l Verde”- Dante).

E così Carlo poté essere incoronato Re di Sicilia, di quel grande regno proteso nel Mediterraneo dove si affacciavano tante nazioni, verso le quali erano diretti i traffici commerciali, fonte di enormi ricchezze. Era un’occasione d’oro per quel sovrano ambizioso, il quale, per realizzare i suoi propositi, doveva conseguire ubbidienza e fedeltà all’interno del regno e sicurezza dei porti e delle coste.
All’interno l’equilibrio dei poteri tra sovrano e feudatari era stato spesso precario nel passato, sia durante la dominazione normanna che quella sveva. L’Angioino punì senza pietà i feudatari infedeli o riottosi alla sottomissione incondizionata. Uno di quelli fu Filippo Chinardi, conte di Conversano, al quale furono sottratti i territori di Conversano, Rutigliano, Turi, Casamassima ed Acquaviva; il povero conte morì combattendo in Epiro nel 1267 per difendere i beni appartenuti alla vedova del re Manfredi. Carlo d’Angiò, insensibile e spietato, si impossessò anche dei beni appartenenti ai figli minorenni di Chinardi, i quali abitavano in Alemanno, affidati al castellano Guarnieri Alemanno; quest’ultimo, da vero furfante e dietro sporca ricompensa, consegnò i fanciulli nelle mani dell’Angioino, il quale li destinò ad orrenda prigionia nel castello di Trani.
Proprio in quel castello, che era stato trasformato in prigione per la moglie di Manfredi e dei suoi figlioletti, che aveva seguitato ad essere carcere dei fanciulli di Chinardi, il re Carlo I volle celebrare il suo secondo matrimonio con Margherita di Borgogna il 18 novembre 1268.
I feudi, espropriati ai feudatati ribelli ed infedeli, furono donati agli uomini d’arme ed ai cavalieri francesi arrivati in Puglia al seguito dell’esercito dell’Angioino. In particolare, la contea di Conversano fu data ad Adam Morier, al quale subentrarono prima Giovanni Chauderon e successivamente Ugo di Brienne.

Carlo I, per attuare la sua politica di espansione, aveva bisogno di notevoli quantità di denaro per il sostentamento delle sue truppe e non si fece scrupolo di aumentare tasse, tributi e gabelle; eppure l’Angioino era stato accolto in Puglia con grandi feste, poiché, con la nuova dominazione, aveva promesso franchigie e libertà per le classi meno agiate, rispetto delle proprietà dei feudatari, abolizione di tributi e di gabelle varie. De Santis così scrisse nel suo libro: “Il governo rapace e tirannico di Carlo aveva smunto, stancato, inasprito il popolo…Gli antichi baroni…fremevano ed incitavano alle sollevazioni…Carlo d’Angiò, vista in pericolo la splendida corona, che l’infamia di un Papa, l’errore degli ultimi Svevi e la stanchezza di un popolo mal compreso gli avevano posata sul capo, mandò dappertutto, non soldati, ma ladri, incendiatori e sicarii feroci ”.

Per favorire la commercializzazione dei prodotti agricoli pugliesi, soprattutto olio, vino e grano, verso il settentrione dell’Italia, concesse ai trafficanti veneziani, che erano numerosi dalle nostre parti, di organizzare “fondachi” (depositi per le merci) su tutta la costa pugliese. Con l’andar del tempo i veneziani si installarono stabilmente in quei porti anche con forti presidi militari; il che assicurava un predominio commerciale che si trasformò in conquista dei territori alla fine del 1400.

L’Angioino, per salvaguardare la regolarità dei traffici che dovevano assicurargli le entrate necessarie al sostentamento del suo governo, aveva la necessità di rendere sicure le strade utilizzate dai commercianti ed i porti dai quali dovevano partire le barche da trasporto e le navi da guerra.
La Terra di Mola, attraversata dalla via Traiana nel percorso verso Brindisi, era un pericolo costante per  commercianti, pellegrini e funzionari pubblici. In quella terra, infatti, trovavano comoda dimora numerosi briganti, i quali si confondevano con gli abitanti del luogo che vivevano nelle grotte, tra la folta vegetazione spontanea delle lame e delle campagne circostanti. Inadatto per un presidio militare era il borgo antico nel quale si trovavano pochi e malandati edifici, per lo più casupole abitate da marinai. Scrisse Carlo I il 6 giugno 1277: “… abbiamo deciso… di rendere abitabile quel luogo che si chiama Mola per comodità di coloro che si trovano di passaggio ed anche per la sicurezza della costa, in modo che i pirati non abbiano una comoda base per assalire i nostri fedeli sudditi, ancor prima che gli uomini si rechino ad abitare questo luogo, è bene che questa terra sia circondata da mura e fortificata affinchè non possa essere assalita da predoni” (come riportato da M. Calabrese nel suo libro a pagina 187).

Una rifondazione dell’antica Mola alla quale gli abitanti originari non parteciparono, perché erano giudicati, nel loro insieme dall’Angioino, primitivi, selvaggi e predoni. In realtà, tutta la gente pugliese era ritenuta nemica e straniera dal francese; popolazione da sottomettere per le proprie necessità economiche e militari. E così, all’interno delle mura della nuova Mola costruirono le loro case 150 masnadieri, uomini appartenenti al demanio angioino, fedeli alla casa francese ed ai suoi interessi, mentre gli antichi abitanti continuarono ad abitare le loro grotte e le loro casupole disperse per la campagna.

 

  di Giovanni Miccolis

 

 

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