Nell’ormai lontano 2002, nel presentare a Polignano Il volto delle donne, notavo come dai versi di Antonietta Lestingi si ricavasse con nettezza un’idea e una pratica di scrittura poetica quale strumento di scavo interiore, mirato alla ricognizione di una impietosa autocoscienza. Anni dopo, nel 2009, commentando una piccola raccolta di hayku dal titolo Poco ho da dire, impreziosita da disegni di Mariella Napoletano, avevo occasione di constatare come le due artiste avessero praticato in parallelo, con eccellenti risultati e con grande sintonia estetica, un severo esercizio di sintesi espressiva. Autocoscienza e sintesi che ritrovo oggi, affinate ed esaltate, in questa ultima raccolta, di nuovo accompagnata da suggestivi disegni di Mariella Napoletano, dal titolo Come matasse all’arcolaio. Ancora una volta, l’area tematica dominante che emerge dalla lettura di questi versi è la ricerca di chiarificazione interiore, mentre l’essenzialità ne è la cifra espressiva. (Cfr. Miracoli da donna, p. 9). Una fra le tante liriche che possono testimoniare l’equilibrio tra il dire e l’accennare, ottenuto con la successione di appena due metafore intese a rendere possibile l’impossibile: (“camminare sull’acqua”, “sorreggere la volta del mare”), che è l’essenza del “miracolo”
Ma, attenzione. L’interiorità, la storia dell’io poetico, le sue fluttuazioni emotive, qui non occupano né esauriscono bulimicamente il territorio d’esplorazione, facendo intorno a sé terra bruciata. Fin troppa lirica novecentesca, a tal punto immersa – e persa — nella totalità dell’io da ridurlo a monade recitante, ci ha assuefatti alla assenza di interlocuzione, ad un mondo vuoto e senza possibilità di contatto, ridotto ad un inerte e desolato scenario. Qui succede l’esatto opposto: la discesa nelle profondità dell’io serve a fissare un punto di vista certo da cui traguardare il mondo, da cui riattivare col mondo un contatto autentico, fondato su sentimenti di autentica disposizione all’Altro. (Cfr. le liriche Sulla strada dei ragazzi, p. 19 e seguenti) La sezione è un perfetto esempio di ricerca di sé, che dapprima si scopre “impreparata”, poi accetta il confronto [“Non hanno smesso le domande/di bruciare il mio tempo”], poi supera disagio e l’incomunicabilità [“Nessuno a dialogare col mio punto di vista”] , infine scopre, quasi a sorpresa, un mondo altro con cui venire a patti (“Qui si compie il ritorno… Le risposte sono là/ dove non pensavamo/ di porre domande”] Come avviene questo percorso? Di quale attrezzatura si serve l’Autrice per attivare sia la catabasi che l’anabasi e la finale ricomposizione d’un mondo nuovamente “suo”? Innanzitutto moltiplicando lo sguardo e allargando tematiche che implicano la pluralità; in primis il coinvolgimento di altre donne nella costruzione del messaggio. Già la ricordata raccolta del 2002, Il volto delle donne, denunciava esplicitamente fin dal titolo che questa voce poetica intendeva farsi plurale, e che i trasalimenti, le emozioni, i sentimenti snidati e condensati nell’Io, gli stessi vissuti personali, non solo erano condivisibili con figure di donne amiche cui si dava addirittura nome, ma presentavano una valenza universale, tratti comuni a tutte le donne. Ebbene, la stessa aspirazione a rendere universale l’identità femminile ritroviamo qui, nell’ultima fatica di Antonietta, declinata, quella identità femminile, in tutte le forme in cui essa solitamente si esprime: la maternità, la generosità del donare, l’abnegazione, la forza e la delicatezza, la costanza, la consapevolezza della rinuncia (che non è mai rimozione pura e semplice, ma ritorna ingentilita di nostalgia nei ricordi), il sentimento del tempo, il ciclo delle stagioni, la consonanza con la natura, il rapporto aperto ma tormentoso con la generazione dei figli. E si potrebbe continuare. Tanto che il lettore coglie subito questo tema come l’altra faccia dell’autoanalisi, con l’aiuto anche qui del titolo, che non solo rievoca oggetti-simbolo di tradizionali opre femminili (“matasse” ed “arcolaio”), ma col “come” iniziale suggerisce la felice metaforizzazione sia degli oggetti in sé sia del loro uso, di quella consuetudine domestica un tempo scontata: quella del dipanare, del districare, dello svolgere un filo avviluppato in matassa, e spesso intrecciato o fastidiosamente annodato, per approntarlo alla lavorazione ulteriore. Così, dunque, le donne. Il loro destino comune è finire sull’arcolaio, sciogliersi (di solito con fatica, conflitti, dubbi e dolore) da ogni involuzione, cambiare forma, diventare altre restando se stesse, sdipanarsi in filo liscio, continuo, senza più nodi, come materia prima pronta alla costruzione di altri destini. (Cfr. Il testamento delle madri p. 33 e seguenti) Le mani e il pianto , correlati oggettivi del fare e del sentire, sono seguite da altre immagini di per sé eloquenti, quali la sabbia, il vento, il fulmine morente; indicano tempeste a lungo implacate, il cui sbocco però è in una nuova consapevolezza: la forza acquisita dalla sofferenza attraversata. [“Sono di questa terra/un osso del dorso/carsica/….”] dove la resa poetica è data dal contrapporsi di pietra a pascoli , tra l’essere e l’apparire agli occhi degli altri.
Ma la costruzione poetica richiede materiale suo proprio, il quale non può essere altro che il vissuto personale rivissuto attraverso la coscienza e rivitalizzato dai ricordi, dall’esperienza, spesso dalla lotta (non del tutto persa e mai del tutto vinta) dell’Io col Sé e col mondo. Ora, è di questo materiale, cioè di vissuto coscientizzato, che traboccano i versi di Antonietta, affacciandosi esso a spezzoni e a sorpresa nei versi, tra immagini oggettive create in correlazione. Come oggetti correlati per vie misteriose a pensieri, a ricordi, ad emozioni, le cose messe improvvisamente in primo piano ci restituiscono il profilo di una sensibilità poetica attenta a cogliere i grandi trapassi dell’esistenza (la nascita, la morte, l’assenza, la presenza, l’amore) al pari dei piccoli eventi quotidiani solitamente insignificanti (“la pila della roba da stirare”, “i fornelli”, “il pavimento” ), gli stati d’animo assoluti (le “arsure incendiate dal dolore”) come pure l’intima consonanza con gli aspetti della natura (“i crochi; le mie pratoline”). La quale natura, poi, meriterebbe un’attenzione tutta per sé, in quanto pervade a tal punto questi versi da consustanziarne la rappresentazione e la tessitura verbale: il mare, le rocce, la terra, i fiori, gli uccelli, il vento, gli alberi, tutti gli elementi primari del mondo naturale, insomma, spuntano continuamente a formare, più che a suggerire, significati ampi, a volte plurali nel loro portato metaforico, ma anche significati precisi, icastici, perché divenuti elementi costitutivi di un ben definito vissuto identitario. Anche quando si tratti di vissuto “altrui”. (cfr. Come esile tulipano, p.77) Anche qui il contrasto ossimorico [quercia <….> esile tulipano] condensa il senso di una vita, che qui è una vita altrui. Lo stesso ossimoro viene ripreso nella chiusa assertiva [“fragile e forte se/ come ha fatto lei/ gli si dà retta”]
Tale scrittura poetica, anche quando è rivolta al Sé, cerca l’interlocuzione, cerca un “Tu”. Si proietta sempre in persone, in altre vite e in altre esperienze. Ma non sempre è esplicito quale sia, oltre naturalmente al lettore, il reale destinatario del messaggio: il più delle volte è una donna; a volte prende quasi forma narrativa e diventa un “lei” riferito ancora a una donna; a volte è l’Io che parla a se stesso; a volte infine rimane misterioso e dunque non essenziale alla decodifica del messaggio stesso. Essenziale è invece cogliere, anche in questa scelta formale, la tensione all’Altro, il bisogno che esperienze intime, magari dolorose, diventino terreno comune di dialogo, scambio di umana esperienza. (cfr. Poesia d’amore, p. 45 e seguenti) Gli imperativi che si succedono martellanti [“lasciami il diritto…taci…parlami…coprimi di scoperte…Chiedimi…bagnati le dita…cercami]scandiscono altrettante condizioni per una consonanza affettiva virtuale e possibile solo attraverso un severo esercizio di conoscenza reciproca.
I disegni di Mariella Napoletano, dal tratto pulito, deciso ed essenziale, si alternano pagina dopo pagina al succedersi delle liriche, traducendone visivamente un verso, un’immagine di spicco. Ma la successione delle liriche non è affidata al caso: esse vengono raccolte sotto titoli decisivi per la loro decodifica, e utilissimi ad orientare il lettore sui temi dominanti dell’intera raccolta. Che solo così appare nella sua luce propria: come un unico, organico, intrigante discorso poetico. Non concluso. Ancora teso ad altri viaggi dell’anima nell’anima.
(cfr. In cerca di spazio, p. 125)
|