1. Redatto con l’intento di darlo alle stampe già nel 1804, ma in realtà rimasto lungamente inedito, il manoscritto di Giuseppe Antonio Tarsia Morisco (…) era stato ripreso e pubblicato da Sante Simone a Conversano nel 1881 per i tipi di Benedetto Favia (8°, pp. 455), corredandolo di proprie note e lasciando immutata l’impostazione generale: vi apportava solo tre variazioni rispetto all’originale con le omissioni della dedica al vescovo Nicola Vecchi, del primo capitolo e dell’Appendice documentaria. La pubblicazione non doveva aver avuto una gran fortuna editoriale, non tanto per la tiratura probabilmente limitata – ben poche sono rimaste le copie in circolazione e quasi tutte nelle istituzioni culturali –, quanto soprattutto per l’intrinseco disagio di consultazione, come verrà precisato al 3.4. A riproporne l’edizione anastatica si era accinto l’Editore Arnaldo Forni, che l’annunciava nel suo catalogo alcuni decenni fa, ma l’impresa non ebbe seguito e fu definitivamente abbandonata, presumibilmente per quella difficoltà per il lettore che si sarebbe tradotta non solo in un mancato utile economico, ma forse in un fallimentare insuccesso editoriale. Una ragione puramente economica prevalente sulla cultura pura, comunque giustificabile senza interventi finanziari pubblici, per i quali peraltro non saprei se fossero stati posti all’attenzione dell’Amministrazione Comunale di Conversano. Certo l’opera tarsiana non è di facile e immediata consultazione, né mette a suo agio il lettore, ma sicuramente la sua composizione non può definirsi “informe, sconnessa, affastellata e confusa”, come severamente sostiene il Bolognini nella sua introduzione. (……………)
3.1. Viene preliminarmente da chiedersi se ha ancora validità riproporre nel nostro tempo questo testo storico del 1804. Una prima risposta che rimuove ogni perplessità è data dalla sua indubbia e innegabile qualità; le Memorie inoltre colmano un vuoto storico di un secolo e mezzo dall’edizione latina edita a Madrid nel 1649. Inoltre va chiarito subito che la nostra non può ritenersi una riedizione del 1881, ma un’edizione del tutto nuova, perché riporta la trascrizione integrale del manoscritto tarsiano. Non conosciamo i motivi che hanno sistematicamente indotto il Simone alle numerose omissioni del ms., e di alcune parti a farne un semplice abrégé. (…) Pur dichiarando il Simone nel rivolgersi ai lettori che “il lavoro del chiaro autore sarà fedelmente pubblicato com’è scritto” (p. VII), è da presumere che abbia pensato a un’operazione di restyling, sia omologando a tratti la lingua dell’autore a quella del loro tempo, e sia omettendo, con ingiusta e notevole perdita per noi, le lunghe citazioni documentarie, spesso in latino, in modo da ottenere una più accattivante accoglienza dei lettori. (…………..)
3.4. L’opera del TM è strutturata secondo un modello classico della scolastica: una breve tesi enunciativa e poi lo svolgimento attraverso le “note”; quando queste sono molto brevi le sottopongo nella stessa pagina e in tal modo il lettore ha immediata continuità logica con il testo. Ma quando esse prendono corpo e diventano per così dire anche kilometriche, è allora che il lettore entra in crisi: gli tocca alla fine della lettura della nota ritornare alla pagina della tesi, scorrere il testo per rintracciare l’assunto da cui è partito e proseguire con il nuovo per una operazione contraria fino a ritrovare la nuova nota. Un pendolarismo dispendioso e difficoltoso che crea disagio mentale e perdita di continuità del discorso storico. Per una nuova edizione occorreva quindi un diverso impianto editoriale. Ma quale? Un innovativo e radicale cambiamento mediante capitoli a sé stanti, seppure in successione storica, avrebbe svisato totalmente l’impostazione dell’originale con conseguente perdita della visione organica del compatto contesto, e comportato necessariamente interventi “spuri”. Così allora ho preferito conservarne l’organicità originale mediandola attraverso una divisione logico-argomentativa, scandita numericamente, e richiamando sempre all’inizio il tema parcellare, in modo da conservare la visione d’insieme. Ovviamente tali apporti sono visivamente distinguibili per la presenza del corsivo nell’uncinato. (………………)
3.11. Traspare ripetutamente, quasi come per una biblica evocazione, la predilezione dell’autore per la coltura della terra, quella sassosa e improduttiva che attraverso l’attività laboriosa umana diviene per l’uomo stesso riscatto sociale, economico e personale. Significativo il passo in cui (metafora o realtà che sia) il lavoro della terra viene posto in sintonia con la penitenza della confessione quasi come un’equazione: più peccati, più penitenza e la penitenza consiste in alberi da piantare. Il risultato? Là dov’era terra inerte e infeconda, là sorgeva, come suol dirsi ancor oggi nel nostro vocabolario contadino, un “giardino”, una terra turgida di alberi da frutto (pp. 61-62). Non vi manca l’annotazione di una persistente e diffusa superstizione popolare, come l’impotenza maschile dovuta ai malefici delle streghe: “Dippiù accade alla giornata in Conversano per una forte accensione di fantasia, che tanto suol operare sopra del nostro spirito, non potersi da sposi conoscere carnalmente le loro spose, e specialmente quelle che sono belle, per qualche tempo dopo lo sposalizio. Dicono costantemente che tutto ciò venga a nascere dalle operazioni delle streghe, che chiamano legature (p. 45); né vengono tralasciati anche piccoli particolari, come si dice oggi, di genere: l’usanza femminile ancora vigente al suo tempo del taglio dei capelli sul marito defunto (p. 44); ovvero la delicata annotazione sulla bellezza fisica e morale delle donne conversanesi: “Le femmine poi quanto sono belle, amorevoli e compite, tanto sono caste e divote” (p. 63), mentre il suo avo esalta ancor più la fisicità femminile (le donne sono bellissime e molto feconde per il dono delle mammelle); o ancora la consuetudine femminile della perdonanza prima del matrimonio (p. 146).
3.12. Possiamo affermare in conclusione che le sue Memorie, penalizzate dalla linea editoriale del Simone e ingiustamente accantonate o poste in ombra dal sopraggiunto Bolognini, restano la più ricca, preziosa e bella storia documentaria della nostra città. Ovviamente pur con tutti i limiti che gli si possono addebitare e per alcune sue ipotesi storiche che diventano tout court certezze mediante un retorico interrogativo piegato all’afferma-zione, anche se nella storia, lo sappiamo, ogni ipotesi ha sempre bisogno di riscontri oggettivi e documentari. È soprattutto a lui che dobbiamo anche la documentazione delle testimonianze epigrafiche, molte delle quali ormai perdute, e alle quali hanno attinto sia il de Jatta e sia il Bolognini. Infine le numerose citazioni degli accademici e umanisti del ’400, come p. e., Cantalicio , vescovo di Atri, Jacopo Sannazzaro, Pietro Summonte, Giovanni Gioviano Pontano, Giovanni Albino, Gregorio Rosso, Pandolfo Collennuccio, il Duca di Monteleone , il leccese Antonello Coniger (Connigero), Paolo Giovio e i successivi Angelo di Costanzo, Camillo Porzio, Domenico Antonio Parrino, Francesco Capecelatro, Eustachio d’Afflitto, Baldassarre Storace e altri ci fanno riscoprire la ricca produzione letteraria e storica del regno di Napoli. Di questi testi antichi, nell’indicare il preciso riscontro bibliografico, ho inteso consultare quelle edizioni che il TM avrà avuto tra le mani nel suo tempo, tralasciando quindi le moderne edizioni critiche, salvo qualche eccezione. Senza dubbio tutti questi materiali storici diventano per noi uno stimolo ulteriore a riprenderli, confrontarli e vagliarli criticamente per elaborare nuovi studi sulla nostra città; la ricerca quindi, inesauribile come sempre in ogni disciplina, resta tuttora aperta. dalla Prefazione della Dissertazione
1. Si era conclusa tragicamente appena qualche anno prima la brevissima esperienza repubblicana del 1799 a Napoli: iniziata il 21 dicembre 1798 con la cacciata del re, era stata spazzata dalla repressione sanfedista, guidata dal card. Fabrizio Ruffo e dai lazzaroni, i popolani napoletani filo-borbonici; la città era stata ripresa il successivo 22 giugno e il re reinsediato. La classe intellettuale rappresentava la “minoranza” non solo come numero, ma come espressione capace di “compenetrare a sé la nazione”, scollata del tutto dalla plebe che, senza “altro barlume d’idea politica che la potenza del re”, identificava nei proprietari, i gentiluomini e i signori il movimento patriottico definendoli giacobini: “Chi tene pane e vino, / ha da esse giacubbino”. La reazione del re Ferdinando IV era stata molto dura: quelli che riuscirono a emigrare, sottraendosi alle uccisioni comminate dal re, furono più numerosi di quelli di altre parti d’Italia e gli aristocratici che avevano aderito alla repubblica vennero privati nel 1800 della rappresentanza nei Sedili. La plebe era stretta dall’endemica e immensa povertà, che ne avvelenava l’animo e sfociava nelle province nel brigantaggio, ma piuttosto che lasciarsi permeare dagl’ideali di libertà e uguaglianza provava sentimenti di devozione monarchica e fece sua la crociata della Santa fede promossa dal card. Ruffo. In tale contesto il re nel 1802 emana un dispaccio quasi a promuovere un sondaggio-gara per arginare il dilagante fenomeno della povertà; il gesto poteva apparire perfino “democratico”, ma in realtà era semplicemente un modo per tacitare o tenere sotto controllo le istanze dal basso e quelle dall’esterno, quest’ultime concretizzatesi quattro anni dopo con la conquista napoleonica; un modo paternalistico per blandire le estese masse diseredate in cui “i Masanielli non erano morti” e che erano guidate “da istinto infallibile dell’utile loro immediato”. Quanto al re poi icastico è il giudizio del Croce: “A re Ferdinando si è fatto forse troppo onore chiamandolo un tiranno: il che farebbe supporre, per lo meno, l’ambizione della forza e del potere. Egli pensava alla caccia, alle femmine, alla buona tavola; e purché si lasciassero fare le dette cose, era pronto a intimare la guerra, a fuggire, a promettere, a spergiurare, a perdonare e ad uccidere, spesso ridendo allo spettacolo bizzarro”.
2. Il dispaccio regio si articolava in due punti: 1. come trovare risorse per incanalare i poveri in unità abitative o Case di reclusione; 2. quali i mezzi per superare la povertà, e creare produttività economica. TM si accinge a raccogliere l’invito partendo da quella diffusa topica mitologica incentrata sulla retorica dell’ubertà del Sud, che Giustino Fortunato demitizzerà realisticamente; ne intravede comunque aspetti di decadenza, di cui coglie le cause storiche, per concludere “che non siamo ancora pervenuti a quella condizione che potrebbe dirsi esser di già perfetto lo stato nostro civile. Noi non ancora ci abbiamo una nazione formata” (p. 445), e trova nell’educazione, nella legge e nel lavoro mediante il supporto dello stato i fattori di rinnovamento morale ed educativo contro la povertà. Entra quindi nel nocciolo del tema: la costituzione delle Case per i poveri, che intanto rimuovono la piaga diffusa del vagabondaggio. Dove trovare i mezzi per l’accoglienza di questa fascia sociale così derelitta? Molto dispendiosa sarebbe la loro costruzione ex novo, e i finanziamenti e le risorse da reperire sarebbero ingenti; peraltro, se trovati, non potrebbero se non essere attinti attraverso il giro di vite della tassazione, incombente più sul popolo che sulla ristretta cerchia di nobili e alto-borghesi. Non gli pare perciò praticabile e neppure immediatamente realizzabile questa soluzione. Ecco la sua intuizione, comoda, tempestiva e alla portata di mano: egli ……… (……….)
È il lavoro per TM, rispondendo al secondo punto del bando borbonico, che da una parte redime il povero e dall’altra lo rende produttivo e utile alla società, citando quella massima popolare “che quanto è più povero il vostro popolo, tanto meno rende a voi stesso” (p. 451), ossia alla collettività; perciò nessun assistenzialismo, né dargli un “reddito di cittadinanza” come diremmo noi oggi ……..
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