Sprofondata in una delirante e lacerante pausa di riflessione, LUNA DI MARZO gode di una teatralità che si annuncia dando nuova veste (versi liberi e non, basati sulla risonanza) ad un punto di vista ancora fortunatamente forte sul femminile.
Diverse inquadrature preannunciano sarabande semantiche contagiose che rimuovono ad arte la paura di imboccare il viale del tramonto, aggiustando il tiro di continuo, compresa la fase finale.
Riesce a camminare con le proprie gambe, non ha bisogno di essere imboccata, questa luna capricciosa ma dinamica che si pone come obiettivo la presa diretta con la condizione femminile che incarna. Condizione femminile in cui tre identità, faticosamente costruite, si scoprono vantando figlie, madri e nonne conosciute, non certamente conformiste, intensamente dedite al racconto e all'ascolto.
LUNA DI MARZO s'affaccia all'orizzonte di queste tre donne, quando il forte bisogno di confronto col mondo esterno viene ancora una volta disatteso, per cui torna utile per non morire sviluppare pratiche di vita e di scrittura alternative, promiscue, forse nevrotiche, perse dietro la ricerca morbosa di peso, visibilità, consenso.
Distanti dalle mire di Penelope, queste donne smettono d'illudersi: non sono più disposte a disfare di notte, alla luce della consapevolezza, i versi intrecciati e i ruoli rivestiti di giorno, all'ombra della leggerezza del quieto vivere.
Trascinate al largo dalla corrente dei loro vissuti, sicure di poter contare sul personale talento natatorio, sperano tuttavia di trovare sulla strada del ritorno qualche relitto cui poter far appoggiare la stanchezza...
L'appello alla memoria dispensa squarci di universi maschili distratti, sfigurati, spogli; universi in difficoltà nel riportare i battiti al cuore, i pensieri alla mente, le fantasie al corpo, universi immiseriti da mediazioni intentate.