La casa come segno di una tradizione contadina che continua a vivere nel presente, con le sue usanze, ma che pure è sottoposta a un’inevitabile trasformazione dei suoi orizzonti di vita: è questo il nucleo portante delle commedie che Rita Tagarelli ha composto in vernacolo nojano e che, non a caso, si aprono entrambe su una casa di contadini, “la solita casa contadina” di A zeita sc-nneut (La sposa in fuga d’amore, come recita il titolo nella traduzione italiana che l’autrice ha voluto affiancare al testo dialettale: una traduzione che, senza alterare il “sapore” di fondo della scrittura teatrale, sembra voler alludere alla difficoltà, oggi, di ricezione della dialettalità, e non solo in contesti più ampi ma forse nella stessa comunità di cui pure essa è significativa proiezione). Fra i salotti della commedia borghese ottocentesca, in cui si delineano con compiaciuta insistenza scene di vita familiare, con l’accenno persino al “lesso” e alla spesa quotidiana, il recupero e la rivisitazione drammaturgica del comico goldoniano e il dramma rusticano del Verga, la scena teatrale italiana aveva lasciato da parte gli appesantiti fondali cortigiani e nobiliari per ritrovare il senso di una nuova vitalità, di un diverso contatto con il reale. E tuttavia sarebbe stata la grande tradizione teatrale napoletana a far esplodere, per così dire, la scintilla del rinnovamento, con le atmosfere digiacomiane, i vicoli di Viviani, i piccoli riti del ragù e del caffè, o la magia del presepe in Eduardo, creatore oltretutto di una lingua che attinge alle strutture profonde del napoletano, ne recepisce l’intima linfa vitale e suggestivamente la trasmette attraverso la scena. Certamente non si può cogliere il significato dei testi della Tagarelli senza valutare a fondo questo particolare panorama di appartenenza della sua opera, che ha dinanzi una realtà - quella di un paese radicato nella realtà contadina come Noicàttaro - ma anche un’intera tradizione drammaturgica abilitata a riconoscere, quasi per istinto, la quotidianità. E come per istinto anche l’autrice congiunge alla lezione del teatro, intimamente rivissuta nelle sue voci “di dentro”, la delicata eppure intensa osservazione di un mondo che solo uno sguardo partecipe ma non paternalistico può far rivivere attraverso il filtro del dialetto e la mediazione teatrale. Rappresentando i suoi umili personaggi, le loro vicende persino meschine, il loro buon senso nutrito di ingenuità e di piccole astuzie, Rita Tagarelli ha colto l’immagine di una civiltà ancora ricca di autentica vitalità, ma anch’essa minacciata dal dilagante consumismo, che la destina alla perdita degli antichi valori di semplicità e di ordine familiare:
Dorotea Eh, figlia bella, andare verso il sedere grasso è una discesa... quando hai cominciato, e chi ti ferma più? Prima l’acqua fresca della fontana della strada, poi la bacchetta del ghiaccio... poi il frigorifero... E poi? Eacqua lo stesso non era più buona e andammo alla gassosa, poi al cocchetello e... Dio vi faccia venire la rabbia! Non si è capito più briscola. E perciò i soldi sono i padroni della vita vostra: né figli, né genitori e nemmeno il Padreterno Dio, voi rispettate solo la moneta...
Sono i vecchi ad essere depositari di uno stile di vita ormai lontano (“Era composta assai diversamente la vita! Voi non la potete neppure sognare. Poveri sì, ma onesti, con la pancia vuota, ma con il cuore contento e la coscienza a posto”, dice la nonna Dorotea, una sorta di personaggio-simbolo) da quello moderno, in cui drammaticamente incombono i fantasmi della droga e del furto; sicché a Dorotea, che ricorda la tradizione di lasciare semichiuse le porte per ricevere le comitive di passaggio la sera della Vigilia di Natale, la nuora Franceschella non può fare a meno di obiettare: “E i ladri dove stavano? Quelli che si drogano e sono capaci pure...”. Si è di fronte a una nuova e più frettolosa concezione della realtà, dove anche i “bambini vengono su maleducati e nevrastenici” e dove la casa, luogo deputato al confronto di esigenze, di ruoli e di età diverse, cessa di essere “luogo d’amore, in quanto contiene la famiglia che è vincolo consacrato, sublime”. Elemento centrale nell’ispirazione della Tagarelli, la famiglia è scrutata nelle sue trasformazioni, ripercorsa nel classico rapporto fra suocera e nuora, tanto abusato ma sempre nodale, nei divertenti battibecchi fra marito e moglie, nelle evidenti difficoltà fra genitori e figli; una famiglia che tuttavia sopravvive nella pienezza delle sue tradizioni - il presepe - o nell’affermazione di un mondo di affetti che supera la logica del pettegolezzo e i contrasti del quotidiano: si tratti dell’amore tra i due giovani fuggiti di casa con il placet della madre della sposa, interessata alla conclusione del matrimonio, oppure si tratti del personaggio dell’altra commedia, Colino, che si commuove per il gesto d’affetto che madre e moglie, all’insaputa l’una dell’altra, hanno avuto nei suoi confronti. La presenza di Eduardo è palpabile proprio in questa evidente centralità della famiglia e dei suoi valori; e allora non meraviglia sentire l’eco, in Ribellione nel presepe, naturalmente di Natale in casa Cupiello, ma anche di cogliere il messaggio di un testo quale Napoli milionaria negli accenti di Dorotea sulla trasformazione-decadenza della famiglia, o di Pasquale Loiacono quando, in Questi fantasmi!, si rivolge alla moglie osservando che fra loro non c’è più possibilità di intendersi perché si è perduta la “chiave” della comunicazione. Ed ecco il vecchietto, personaggio del presepe vivente che nella notte miracolosamente compare nella casa di Vituccio, sottolineare la mancanza di armonia della famiglia e della società, la perdita di una lingua che unisca e non divida, l’assenza di una virtù fondamentale come la compassione:
Vvecchietto Io non mi rassegno: i giovani schifano i vecchi, i vecchi criticano i giovani. Il marito contro la moglie, la moglie contro il marito per stabilire chi deve primeggiare tra tutti e due: il vicino contro il vicino per l’invidia; il bottegaio contro i clienti, i clienti contro il bottegaio per il benedetto guadagno e risparmio... Tutti parlano e la lingua è una serpe piena di veleno, sputano fiamme e cattiverie che tagliano le carni come un coltello... Che brutto mondo! Dove è finita la buona fede? Un pochino di rispetto, un po’ di compassione...
Ancora una volta è un vecchio a fare questa dolorosa constatazione, un vecchio che è persino una statuina del presepe: quel presepe in cui la realtà esterna si è riversata con i suoi livori, con le voci concitate “che venivano dall’abisso della fragilità umana... suggerite dai peccati di sempre: l’ipocrisia, l’invidia, l’egoismo”. Immagini-simbolo e suggestiva invenzione di Rita Tagarelli, queste statuine che litigano dinanzi alla capanna di Gesù rappresentano la sordità umana al messaggio di amore e di solidarietà, che può essere vinta solo con un’improvvisa e luminosa apparizione divina nella magica notte di Natale: l’apparizione degli angeli, introdotti dai musicanti, che nel loro appello agli uomini li invitano a liberarsi dall’involucro delle passioni che rendono l’essere umano rigido e arido, simile a una statua “appiattita dal consumismo, satura dello spreco, devastata dall’egoismo, incerta del domani”, impedendogli di vivere “il gusto dell’essenziale, il sapore delle cose semplici, la gioia del dialogo, la voglia della collaborazione, lo stupore della vera libertà”. È questa la dimensione più profonda che emerge dalla intensa commedia R-bell ind. o pr-sepie (Ribellione nel presepe), nata anche dalla viva adesione dell’autrice, madre e insegnante di esemplare dedizione, al mondo e alle tematiche della famiglia, alla pedagogia e ai suoi problemi. Gli è che l’attenzione al teatro appare, in questa prospettiva, strettamente fusa con il suo mondo personale di affetti e di interessi, eppure da esso distanziata grazie alle sue “figurine” dacommedia: figurine che sono ora personaggi veri e propri con la loro storia e i loro percorsi (soprattutto Dorotea), ora macchiettistiche testimonianze di tradizioni paesane (come ne La sposa in fuga d’amore), ora miniature che si affacciano dal presepe a conversare come se fossero uomini e donne reali. La scelta del dialetto, che certo si collega a una tradizione comica di lunga durata con punti salienti anche nel teatro vernacolare pugliese dal Settecento sino ad oggi, risponde dunque, innanzitutto, al desiderio di illuminare una condizione di vita in cui i valori positivi possono, se pur con grande difficoltà (per intervento divino, si è visto nella trasposizione scenica), sopravvivere o perlomeno non estinguersi; ma essa nasce anche dal proposito di offrire una testimonianza di usi di vita e di linguaggio destinati a perdersi irrimediabilmente, soffocati da processi di prepotente uniformità e di progresso solo apparente. Figlia di un medico che è stato anche fecondo autore di teatro, aperto alla realtà delle problematiche del suo tempo e insieme autorevole studioso di fatti della storia e della lingua locali, Rita Tagarelli reca nel farsi della sua scrittura drammaturgica una passione si potrebbe dire civile, frutto di un impegno di vita che rende vera e costruttiva la sua apertura al teatro, e insieme una vivacità ludica che costituisce il segreto del disporsi agile e brioso del suo dialogo scenico, ricco di icastiche frasi proverbiali e sostenuto da una vis comica che si fa particolarmente ammirare nelle scoppiettanti fantasie verbali e nelle movenze gestuali dei personaggi dell’altra commedia, A zeita sc-nneut. Brillante rivisitazione di una tradizione popolare del matrimonio, questo singolare teatrino delle passioni si anima nella rappresentazione del gustosissimo incontro-scontro fra le famiglie degli sposi, che si svolge in casa di due vicini, Cherubina e Michelino, disposti a fare da moderatori. Perché quella contadina, sembra voler suggerire l’autrice, è una civiltà che ancora molto può insegnare con l’immagine - un po’ attenuata ma non del tutto spenta - che essa offre all’intera società di un respiro collettivo, di un tutto organico agli accadimenti della vita, integrato in una sodalitas che va al di là dei piccoli e banali segni quotidiani per raggiungere un ideale di vita che è quello del paese contrapposto all’alienazione della metropoli, della comunità contrapposta all’individualismo disgregante.
Con queste sue commedie Rita Tagarelli traccia una linea ricca di significato all’interno delle sue tradizioni familiari e di quelle della comunità di Noicàttaro, che è stata particolarmente attenta al teatro sin dal Seicento, come recenti contributi di studiosi nojani hanno mostrato; ma soprattutto rivela, con felicità e leggerezza di invenzione, con equilibrio e profondità di riflessione, le sue doti di sensibile interprete del presente alla luce di un passato contemplato e rappresentato con assorta nostalgia ma non con sterile rimpianto, bensì come operante prospettiva di riconquista dell’humanitas nella realtà contemporanea.
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