Nel 1919, quando Gentile si accingeva a varare il «Giornale critico della filosofia italiana», evento che segnava letterariamente e organizzativamente il distacco da Croce (Gentile fino ad allora aveva assiduamente collaborato alla «Critica») – Croce, all’annuncio, ebbe un moto di reazione piuttosto scettico: trovò da eccepire sull’aggettivo «italiano» che gli pareva «alquanto nazionalistico» e di «valore sentimentale e oratorio» più che filosofico; quindi, richiamando il titolo dei volumi che Gentile aveva cominciato a pubblicare due anni prima, Le origini della filosofia contemporanea in Italia, obiettò: Credi davvero – gli scriveva – che in quei filosofi, quasi tutta povera gente, siano le nostre origini? Meno male che tu ci trovi lo Spaventa: io non ci trovo nemmeno i miei maestri, De Sanctis e Labriola. E se anche ce li trovassi, non in essi soli, né in essi soli intermediarii, sentirei le mie origini 1.
L’obiezione era pungente: primo, perché contestava l’idea stessa di una genealogia culturale, di padri e figli, di maestri, discepoli e continuatori; secondo, perché entrava nel merito delle scelte anagrafiche di quell’albero genealogico. Un albero fatto di «povera gente»: a partire da quel Bertrando Spaventa, suo familiare e zio, dal quale Croce aveva preso le distanze:
Immaginazione o falsa congettura devo dichiarare quella del mio ‘hegelismo’, quasi tradizione domestica a me trapassata dal mio zio del lato paterno, Bertrando Spaventa, famoso hegeliano. Quando ebbi tra mano per la prima volta i suoi libri e mi provai a leggerli, essi, nonché iniziarmi allo hegelismo, piuttosto me ne stornarono. Perché lo Spaventa proveniva dalla chiesa e dalla teologia; e problema sommo e quasi unico fu sempre per lui quello del rapporto tra l’Essere e il Conoscere, il problema della trascendenza e dell’immanenza, il problema più specialmente teologico-filosofico 2.
Spaventa insomma era stato «teologo» e «seminarista», e, perciò olim sacerdos semper sacerdos. Di Jaja – che della genealogia gentiliana è punto decisivo – non è menzione: Croce aveva avuto con lui un breve, lontano scambio epistolare (che fu un autentico dialogo tra sordi), ma i loro rapporti erano finiti lì 3. Se Spaventa, che aveva avuto così gran parte nella cultura del secondo Ottocento, gli sembrava metaforicamente un «seminarista» (a onta del suo scandaloso abbandono dell’abito talare), figurarsi Jaja, che seminarista lo era stato ben più a lungo, e che più del maestro si era occupato di «essere e conoscere»: il che nell’ottica di Croce, che esortò sempre i filosofi a «pettinare il crine» dei problemi concreti, equivaleva appunto al massimo dei problemi di ordine «teologico-filosofico». La puntata polemica sui maestri ottocenteschi, era in realtà rivolta a Gentile stesso: un rincalzo di quell’accusa di «misticismo» che già da sei anni, nel 1913, Croce aveva pronunciato contro l’attualismo gentiliano. Gentile non se ne darà per inteso. Negli anni a seguire infatti, non solo avrebbe continuato a costruire l’albero genealogico, il cui tronco principale portava da quella «povera gente», Spaventa e Jaja, a Gentile stesso, appunto; ma avrebbe reso canonico, e imposto a una intera generazione di studiosi e storici, ben oltre il secondo dopoguerra, un metodo storiografico fondato sulla costruzione di simili genealogie. Beninteso, Gentile non inventava niente: esasperava semmai un metodo che era possibile rintracciare nell’archetipo di tutte le storie della filosofia idealistiche, a partire da quella di Hegel, per arrivare a quella di Spaventa. Un metodo basato sul presupposto che ogni singolo pensatore era importante solo se e nella misura in cui costituiva un anello intermedio (gli «intermediarii» aveva detto appunto Croce) di un’«aurea catena» del pensiero, e non in quanto figura storica concreta. Fu dunque Gentile, e l’egemonia gentiliana su una parte cospicua della cultura del Novecento, a imporre e a far divenire ‘classici’, pensatori – come Spaventa e Jaja – che diversamente avrebbero avuto solo uno spazio secondario nelle ricostruzioni storiche: al punto che anche nel dopoguerra, quando quel metodo e quella genealogia sono state radicalmente messe in discussione, si è continuato per decenni a discuterne4 . Bisogna dire tuttavia che a fronte della imponente letteratura critica su Spaventa, i pensatori ‘minori’ del gruppo cosiddetto degli ‘hegeliani di Napoli’ e dei suoi rivoli ‘neokantiani’, hanno avuto una considerazione alquanto ridotta. E Jaja in particolare: quel Jaja che Gentile elevò ad ‘anello intermedio’ fra sé e Spaventa, come l’autore che avrebbe dato il decisivo impulso alla trasformazione dell’idealismo in «spiritualismo assoluto», dunque in attualismo5 . Esistono infatti buone monografie su molti personaggi in diversa misura ricollegabili al magistero di Spaventa, o comunque uscite dalla sua scuola in varie direzioni (verso il neokantismo, il positivismo, il marxismo): valgano per tutti Antonio Labriola, Francesco Fiorentino e Felice Tocco. Ci sono persino importanti lavori su un personaggio sempre associato a Jaja, come Sebastiano Maturi, suo contemporaneo, erede della lezione spaventiana tra il 1880 e il primo decennio del Novecento, e intimo di Gentile: i più remoti dovuti ad Augusto Guzzo e Mario Dal Pra, i più recenti di Francesca Rizzo 6. Le monografie su Jaja, ormai datate, sono invece di più esile spessore critico, e oggi scarsamente inutilizzabili7 . Su questa situazione ha pesato e continua a pesare proprio il taglio della ricostruzione di Gentile, che non ha esitato a proiettare su Jaja l’ingombrante ombra del proprio sistema, in misura ancora più rilevante che non su Spaventa. Quando nel 1914, alla morte di Jaja, gli successe sulla cattedra di Pisa, Gentile disse infatti nella sua prolusione accademica che era venuto non a «sostituire» Jaja, ma a «continuarlo»8 . Ed era espressione che dovette sorprendere l’uditorio, perché sarà parsa bizzarra l’idea di «continuare» un autore i cui libri ormai remoti (l’ultimo risaliva al 1893) nessuno verosimilmente più ricordava, il cui ‘sistema’ nessuno avrebbe più saputo inquadrare con esattezza e che da anni conduceva una vita appartata e relativamente estranea all’ambiente universitario pisano. Non solo, ma il capitolo delle Origini che riguarda Jaja, l’ultimo del volume, dunque proprio l’epilogo è – sulla falsariga di quello che lo precede su Spaventa, e in forma ancora più esasperata – non un vero e proprio saggio storico, ma un capitolo di taglio fortemente teoretico: Jaja vi compare quasi solo a far da cerniera tra una ‘riduzione’ speculativa di Spaventa e un introibo all’attualismo. Di più: Gentile ha esercitato in quel capitolo un’altra tecnica tipica della storiografia idealistica: e cioè quella di esibire le «tendenze» reali, ma ‘inconsapevoli’ e non dichiarate in un autore. Una tecnica lungamente sperimentata, e appresa da Gentile sui testi dello stesso Spaventa, che l’aveva esercitata sui classici del pensiero italiano ottocentesco: da Galluppi «kantiano inconsapevole» a Gioberti «hegeliano» e «spinozista» inconfessato. Si trattava insomma di far dire a un autore, attraverso un’abile selezione di testi, e una lettura sintomatica (astraendolo però dai suoi reali problemi e dal suo contesto storico) ciò che l’autore non aveva detto, perché non l’avrebbe bene inteso egli stesso. In una ricostruzione simile, tutta teleologica, a partire dal risultato cioè (ignoto all’autore, ma chiaro al suo critico o successore), era facile ridurre un pensatore a «precursore», inconsapevole appunto, di qualcun altro. E parallelamente dichiarare insignificanti, o considerare una specie di autocensure o remore contingenti o di scuola, quegli aspetti che facevano resistenza a quella riduzione, come una “zavorra” che impedirebbe all’autore stesso di superare sé stesso. Nel capitolo su Jaja questa tecnica è esercitata pesantemente, al punto che come figura storica Jaja vi appare evanescente e instabile. Quel capitolo, come quello su Spaventa, è stato del resto scritto da Gentile esattamente negli anni in cui egli andava elaborando e fissando teoreticamente i capisaldi dell’attualismo, e più di altri ne risente. Il problema dunque sarebbe oggi di tentare di uscire da questa logica e di restituire lo Jaja storico al di là di quello ‘autentico’ che Gentile ha proposto. La difficoltà di questo tentativo, bisogna dirlo subito, è accentuata dal carattere della personalità stessa di Jaja e della sua scarna vicenda esistenziale. Personalità schiva e appartata, come si è osservato: proprio quei caratteri su cui Gentile ha puntato per farne lo studioso non distratto dalla ‘vita’ e concentrato su un suo problema teoretico intimo, il cui travaglio avrebbe trasmesso al discepolo prediletto e unico in grado di capirlo. Al di là di questo cliché due cose sono vere. Che Jaja ha scritto poco e che la sua produzione letteraria cessa sostanzialmente quando Gentile entra all’Università, nel 1893. E che, sebbene il rapporto col discepolo sia documentato da un epistolario molto vasto, non è dato desumere da esso che cosa Jaja pensasse non tanto dello ‘studente’ Gentile (cui dà consigli e indirizzi e che ‘corregge’ all’occorrenza), quanto del Gentile che si afferma con un suo pensiero autonomo dopo il 19009 . Le affermazioni di stima di Jaja sono – se non ricordiamo male – quasi sempre generiche: dunque non sappiamo – a differenza di quanto è avvenuto a Maturi, che dialoga a modo suo e polemizza e tende a distinguersi sia dal neoidealismo di Croce, sia da quello di Gentile – 10 se e in che misura Jaja abbia colto il progressivo distanziarsi dell’allievo dalle sue posizioni.
È anche vero che lo stesso Gentile, all’altezza della sua prolusione napoletana del 1903, La rinascita dell’idealismo 11, e ancora nel 1907, non è ancora esplicitamente fuori dell’orizzonte teorico in senso lato dei suoi maestri. Ma mentre Maturi, almeno privatamente, mostrò di essersi accorto della ‘svolta’ attualistica e di cosa essa significasse rispetto al quadro dell’hegelismo classico, altrettanto non si può dire per Jaja: il che ha in certo modo agevolato l’assimilazione del maestro pisano da parte di Gentile. Il problema di delineare uno Jaja ‘oltre’ e ‘prima’ della reductio gentiliana a precursore dell’attualismo, non è dunque stato ancora affrontato. Esistono invero una serie di contributi che hanno avviato questo lavoro, svolgendone la parte preliminare, e cioè dipanando, attraverso una fitta serie di indagini filologiche, le tappe del discepolato di Gentile e i precosi impulsi divergenti o non riconducibili alla cultura di Jaja. Penso ai lavori di Carlo Bonomo, Angela Schinaia, di Francesca Rizzo, di Annalisa Passoni 12. Tutti questi interpreti, in varia misura, hanno individuato una diversa lettura di Kant, un altro modo di rileggere la tradizione italiana e, soprattutto, l’emergere in Gentile di un gruppo di problemi estranei a Jaja, ma tutt’altro che secondari: come quello del confronto con Labriola e con Marx, o come il problema della metodologia della storia, appena sfiorato da Jaja, e invece – anche principalmente attraverso la mediazione del rapporto con Croce – decisivo negli interessi del giovane Gentile, in cui teoria e ricerca storica ed erudita andavano di pari passo. Dare insomma a Jaja ciò che è suo, e ciò che è suo a Gentile, è senza dubbio il primo passo verso lo Jaja storico. Un passo tuttavia dal quale la letteratura più recente sembra voler recedere. Alludo al volume di un giovane allievo di Emanuele Severino, Davide Spanio – Idealismo e metafisica, uscito nel 2003 – che ha ripreso in mano tutta la questione del rapporto Spaventa-Jaja-Gentile. E lo ha fatto con l’ausilio di un’acribia testuale e di una sottigliezza teoretica davvero notevoli, andando a verificare all’indietro, da Gentile ai suoi maestri, i nodi teorici che stanno alle soglie dell’attualismo e del presunto ‘preattualismo’ di Spaventa e Jaja13 . Ebbene il risultato di questo estenuante esercizio, peraltro meritorio, è – nella sostanza – una riproposizione dell’ottica di Gentile. In poche parole: Spaventa e Jaja, soprattutto quest’ultimo, sarebbero giunti alle soglie dell’attualismo, assottigliando progressivamente l’ontologia hegeliana, e riducendola a presupposto dell’apparire dello spirito, nel quale solo essa prende senso e significato. Avrebbero però al tempo stesso continuato ad affermare – equivocamente – la creatività dello spirito e la sua libertà, ma perseverando nell’«incatenarla» al processo obbiettivo di un logo anteriore allo spirito, che finisce fatalmente per dettargli e anteporgli le sue leggi e il suo ritmo. A fronte di ciò il gesto teorico decisivo di Gentile è l’affermare, senza più equivoci, l’intrascendibilità dell’atto del pensare e dunque la natura autocreativa e spontanea dello spirito 14. Che cosa si ottiene alla fine di questo itinerario? Nonostante tutto, e nonostante la puntualità dei riferimenti al testo di Jaja, niente di particolarmente diverso da ciò che Gentile ha proposto come la propria storia. Col doppio esito che: primo, si finisce per occultare la vicenda stessa di Gentile e la nascita dell’attualismo. Una nascita che vien fuori tutta pura, un itinerario di concetti (Eugenio Garin ha sempre insegnato a diffidare dalla purezza e anzi a considerare la storia delle idee una storia molto impura), tutta scritta all’interno di un problema teorico ereditato e rimeditato per vent’anni. A Spanio, Mauro Visentin ha obiettato molto convincentemente, pur riocnoscendo il solido impianto del volume, che la nascita dell’attualismo va spostata in avanti rispetto al periodo della formazione e che decisivo per essa è il confronto instaurato da Gentile con la logica di Croce 15. Secondo: che Spaventa e Jaja vengono ricondotti a forza in questo esito. E questo avviene attraverso una lettura molto formalizzata dei testi: che sono, di nuovo e sempre, i testi classici sui quali Gentile ha costruito la sua interpretazione. Ebbene, sarebbe necessario una volta per tutte verificare in che misura Gentile ha riprodotto verbalisticamente i testi dei maestri, avulsi dal loro senso originario. E questo vale in misura fortissima per quelli di Jaja. Esistono infatti altrettanti testi e concetti di Jaja assolutamente irriducibili alla torsione attualistica: il rapporto, in Jaja, potenza-atto, mediatezza-immediatezza, sensazione-pensiero sono intraducibili nella logica dell’attualismo che è sempre già al di là di ogni mediazione. È stato agevole per Gentile richiamare la fraseologia di Jaja, per esempio il rapporto tra «fatto» e «farsi» o la concezione dello spirito come «determinazione dell’indeterminato»16 , e ritradurla in linguaggio attualistico17 . Per dirlo in una sola frase: Gentile vuol far credere che l’esigenza di Jaja – non portata a termine – sia stata quella di “estinguere” la natura nello spirito 18. Il che è agevole se la natura è idealisticamente momento dello spirito: molto meno se questo momento è da intendersi, attualisticamente, come il negativo o l’astratto dello spirito, che lo spirito «espelle» – come talora Gentile si esprime – da sé. Ora, non c’è niente, mai – è sufficiente rileggere non solo Sentire e pensare, ma anche la parte conclusiva Ricerca speculativa al di fuori degli schemi gentiliani –19 , nemmeno un passo che autorizzi a ritenere che l’intenzione di Jaja – o di Spaventa – fosse questa «espulsione». La «natura solida e opaca» che per Gentile è una «scoria» oggettivistica20 , è per Jaja, così come per Spaventa, un presupposto ineliminabile, pena il dissolvimento dello stesso idealismo kantiano-hegeliano. Ma se è così, come può Gentile vedere in questa diversità una inconseguenza dei suoi maestri? Occorre dunque ricontestualizzare Jaja nella sua storia e non in quella del discepolo. È vero, spesso lo si ripete, che Jaja si legge – se si legge – ancora solamente in quanto presupposto di Gentile. Ma occorrerà una volta decidersi a interpretarlo per sé, nel contesto dei suoi problemi e sullo sfondo del tardo idealismo napoletano dell’Ottocento. Per farlo, la mossa decisiva credo consista nel ribaltare l’approccio: non chiedersi più se, quanto e dove Jaja e Spaventa prefigurino l’attualismo: ma, viceversa, chiedersi se, quanto e dove l’attualismo gentiliano non abbia costituito un abbandono dei presupposti dei maestri piuttosto che la loro continuazione. È vero, indubbiamente, che Spaventa e Jaja hanno fornito alcune coordinate di fondo a Gentile e una tradizione speculativa molto strutturata: una interpretazione gnoseologistica e kantianeggiante di Hegel, una esigenza di riforma della dialettica, una accentuazione del ruolo del soggetto. Nella loro ottica si trattava di scongiurare che la logica di Hegel riproponesse un «processo senza soggetto», che ridiventasse insomma qualcosa di simile alla sostanza spinoziana. Da cui l’esasperazione del ruolo della coscienza nella costruzione del sapere che affatica i due pensatori nell’ultima fase della loro attività. Niente tuttavia in loro autorizza, nemmeno lontanamente, la svolta che prenderà l’attualismo, svolta eguale e contraria: quella cioè di un «soggetto senza processo», in cui il soggetto è già dato come compiuto, come sintesi trascendentale, senza che esso debba invece compiersi e «farsi» soggetto. E niente autorizza a supporre che in loro, nemmeno in Jaja, che pure ha meno cultura logica di Spaventa, l’«indeterminato» possa considerarsi alla stregua di una «scoria» oggettivistica, da estinguere nell’atto del soggetto. Benché il linguaggio di Jaja sia fortemente meno ‘hegeliano’ di quello di Spaventa, e benché in lui di una autentica dialettica in senso hegeliano non possa più parlarsi, il rapporto tra «indeterminato» e «determinazione» si configura ancora come «passaggio», «rivelazione», «manifestazione»21 . Ma la dialettica del «passare» è invece assolutamente incompatibile, come fondamento, con la posizione attualistica. L'autoposizione dell'Io, sulla quale Jaja insiste nella Ricerca speculativa, il lavoro cui egli attende a ridosso dei primi anni pisani di Gentile e che espone nei suoi corsi tra il 1893 e il 1895, postula solo apparentemente un primato gnoseologico, nonostante l'ossessiva centralità dell'«atto conoscitivo»: tutta la struttura dell'essere è intesa sì da Jaja come un processo gnoseologico (come «psicologia, ch'è ad un tempo metafisica»)22 , e la «coscienza» è sì centro unificatore, ma è tale, perché è «ripiegamento sopra di sé» dell'essere, senza del quale «il ripiegamento non può nascere». L'Io è «riflessione che la forza sensitiva (...) fa sopra di sé stessa (...) e la natura è parte sua costitutiva». Il «principio» della coscienza è perciò l'«incosciente», anzi «incosciente e cosciente, eterno mistero». L'Io è «possibilità della conoscenza», non «atto», è «medesimezza vuota ed insufficiente», un «soggetto vuoto ed indeterminato»; la «potenza», la condizione del conoscere è un «astratto», che diviene «concreto» solo nel rapporto «vivente» nell'infinita sua attuazione: «potenza e atto sono l'essere», nell'infinita «rivelazione di sé a sé» che è l'Io, «occulto, ineffabile essere», di «ricchezza sconfinata», giacché «fuori dell'essere non ci è nulla, l'essere è tutto». L'essere dunque «è pienezza», unica vera concretezza di fronte alla vuotezza dell'io, che appare solo lo strumento della sua rivelazione: «il pensiero vien considerato come l'essere, quindi rivelazione successiva di tutte le parti che lo compongono»23 . Termini dunque di un processo – benché astrattamente concepito – di “mediazione”, e perciò irriducibili e intraducibili – se non verbalisticamente, mataforicamente e superficialmente – nel linguaggio attualistico e nella dialettica attualistica tra «pensiero concreto» e «pensiero astratto»: nella quale, a rigore, di «passaggio» e «mediazione» non è luogo a parlare e nella quale ogni struttura relazionistica (diversamente ancora presente nell’hegelismo riformato di Spaventa e di Jaja: più nel primo che nel secondo), viene meno. Solo in questo modo si potrà dunque sottrarre Jaja a Gentile: cosa che ancora non è stata fatta esaurientemente. Con ragione scriveva Garin che «si è insistito» troppo – relativamente alla formazione dl pensiero gentiliano – «sul peso di Jaja a Maturi»: peso «in realtà non grande, né significativo. Molto modesti entrambi i pensatori, e non originali»24 . L’unico interprete che abbia impostato criticamente, a nostro modo di vedere, il problema, è stato Guido Oldrini: prima nel volume La cultura filosofica napoletana dell’Ottocento25 , quindi in saggio del 1984, ristampato nel volume Napoli e i suoi filosofi26 . Oldrini ha richiamato giustamente l’esigenza di uscire dalla logica di Jaja «precursore» di Gentile, per ricollocarlo nell’ambito delle discussioni del suo tempo. La «nuova metafisica» di Jaja non può essere interpretabile in funzione del neoidealismo novecentesco, ma solo come un tentativo di fissare il quadro dell’hegelismo napoletano classico in un insieme di coordinate teoriche che ne consentano la conservazione di fronte alla «crisi» filosofica di fine secolo. L’orizzonte di Jaja sono le discussioni col tardo positivismo e con la scuola neokantiana, ed il suo tentativo è di dimostrare che la metafisica idealistica (sulla scia di quanto Spaventa aveva dichiarato nell’opera postuma Esperienza e metafisica, del cui manoscritto proprio Jaja curò l’edizione nel 1888)27 , veniva incontro alle esigenze autentiche del positivismo e delle scienze della natura. Ben lungi da rappresentare l’espulsione del positivismo come filosofia dalla cultura italiana, secondo il programma del neoidealismo, l’idealismo di Jaja rappresentò dunque una integrazione del positivismo, nella sua formula evoluzionistico-spenceriana (dominante in Italia) all’interno dell’idealismo classico: e ciò in misura accentuata rispetto a quanto non avesse fatto (indubbiamente in modo più raffinato) Spaventa, del quale – ricordiamolo – un positivista come Cesare Ranzoli potrà scrivere alla fine del secolo che aveva avuto il merito precipuo proprio di favorire la lettura di Spencer in Italia: affermazione paradossale, se siconsidera la critica esercitata da Spaventa su Spencer, ma significativa della contiguità di interessi e di orizzonte teorico; eppure affermazione che pone il problema storico della lettura dell’hegelismo come filosofia dell’evoluzione e del divenire, comune sia all’idealismo napoletano (da Spaventa, a Fiorentino, a Jaja), sia a settori del ‘centro’ hegeliano tedesco, come Kuno Fischer. Dalla chiarezza di questa impostazione, credo, e solo da essa, si potrà risalire storicamente al rapporto Jaja-Spaventa, che si gioca quasi tutto nel giro dei problemi del tardo Spaventa, che Jaja ebbe modo di ascoltare dal 1881 al 1883, e del quale poté leggere i manoscritti. Si potrà dunque tentare di comprendere meglio storicamente fino a dove Jaja è stato un fedele conservatore rispetto al maestro (forse in senso spiccatamente formalistico) e dove invece se ne è discostato: un tema che finora non è stato mai messo seriamente all’ordine del giorno, e che naturalmente è inaffrontabile in questa sede. Ma sul quale forse si può avanzare qui almeno qualche suggestione. E cioè che Jaja si sforzò di mantenere il quadro teorico di Spaventa, senza tuttavia quel retroterra di letture e di frequentazioni con la cultura filosofica tedesca che sostanziano tutta la riflessione dell’ultimo Spaventa: è sufficiente ricordare che il volume or ora rammentato, Esperienza e metafisica, era costruito su letture di un ambiente – quello dell’empiriocriticismo tedesco – che a Jaja erano del tutto estranee, al punto che non riusciva nemmeno a decifrare o dar sostanza al nome di Richard Avenarius citato nel manoscritto (e dovette intervenire Labriola a farlo) 28. Né Jaja fu in grado di tentare di esercitare la critica del positivismo in corpore vili, come fece Spaventa, il quale affrontò esplicitamente nei suoi manoscritti il problema del darwinismo e della psicologia fisiologica. E infine mancò a Jaja uno dei riferimenti decisivi dell’ultimo Spaventa, attraverso il quale quest’ultimo elaborò una sua strategia di ‘riforma’ o correzione dell’hegelismo e il tentativo di offrire un’alternativa alle esigenze empiristico-positivistiche: vale a dire quel confronto, instaurato già alla fine degli anni Sessanta, con la scuola di Herbart e con derivazioni herbartiane come Hermann Lotze, che è imprescindibile per comprendere tutta la sua attività matura. E sul quale confronto – sia detto qui di passata – si gioca anche la divaricazione tra i due esiti (entrambi veri, come ha sottolineato Girolamo Cotroneo, ma divergenti)29 del magistero di Spaventa: Labriola da un lato e Jaja dall’altro. Due personaggi, personalmente molto distanti, e che ebbero l’un l’altro una reciproca disistima. Anche qui vale la pena citare un episodio: Jaja stava per dare alle stampe (ed anzi era già parzialmente in bozze) un manoscritto di Spaventa che conteneva apparentemente delle “Lezioni di psicologia”. Ebbene solo in fase avanzata del lavoro egli si rese conto che non si trattava di lezioni di Spaventa, ma addirittura di una traduzione dei Principi di psicologia di Hermann Lotze, appunto, che Spaventa evidentemente aveva assunto ed assimilato come traccia per i suoi corsi30. È una testimonianza abbastanza eloquente dei binari distinti su cui si muovevano, per nella diuturna frequentazione, maestri ed allievo. E l’episodio conferma ulteriormente certa estraneità di Jaja a molti dei presupposti culturali del maestro: e spiega il perché la ‘conservazione’ del quadro culturale in cui quello si muoveva, avvenne con la ritraduzione dei suoi problemi – per così dire – all’indietro, in un confronto Hegel-Rosmini, non certo estraneo a Spaventa, ma non così esclusivo come in Jaja. Bisognerà ripartire da questo nodo di problemi, credo, per situare Jaja e comprendere la vicenda di un pensatore, del quale Guido Oldrini – con tutte le riserve e i distinguo che questo interprete ha messo chiaramente in luce, e con tutti i limiti che possa palesare la sua attività intellettuale – ha scritto che rappresentava una «delle poche» e forse tra le poche, autentiche «voci filosofiche»31 in un’età che segnò il declino di tutta la cultura nata con l’Unità d’Italia.
1 B. Croce, Lettere a Giovanni Gentile (1896-1924), a cura di A. Croce, introduzione di G. Sasso, Milano, Mondadori 1981, p. 584.
2 B. Croce, Contributo alla critica di me stesso, a c. di G. Galasso, Milano, Adelphi 1989, pp. 51-52; cfr. su questo aspetto il nostro L'aurea catena. Saggi sulla storiografia filosofica dell'idealismo italiano, Firenze, Le Lettere, 2003, pp. 271-293.
3 Cfr. E. Garin, Aneddoti di storia della cultura filosofica italiana fra Ottocento e Novecento, «Rivista di filosofia neoscolastica», LXX, 1978, pp. 281-301 (rist. in Tra due secoli. Socialismo e filosofia in Italia dopo l'Unità, Bari, De Donato 1983, pp. 59-64, ma vedi anche Id., Intellettuali italiani del XX secolo, Roma, Editori Riuniti 1974 [19872], pp. 142-150).
4 Cfr., per un ampio ragguaglio bibliografico, G. Oldrini, L'Ottocento filosofico napoletano nella letteratura dell'ul-timo de-cennio, Napoli, Bibliopolis 1986.
5 Cfr. G. Gentile, Le origini della filosofia contemporanea in Italia. III. I neokantiani e gli hegeliani. Parte II, a cura di V.A. Bellezza, Firenze, Sansoni 1957, pp. 198-230 (le Origini sono la ristampa di una lunga serie di articoli usciti a puntate sulla «Critica» tra il 1903 e il 1914). Cfr. inoltre la prolusione del 1914 L'esperienza pura e la realtà storica (rist. nella 2a ed. de la riforma della dialettica hegeliana, Messina, Principato, 1923, e più recentemente in Opere filosofiche, a cura di E. Garin, Milano, Garzanti, 1991, pp. 403-428) e il necrologio Donato Jaja, Pisa, Stab. tip. toscano 1915 (rist. poi in Frammenti di storia della filosofia, Serie Prima, Lanciano, Carabba, 1926, pp. 237-249).
6 Cfr. A. Guzzo, Maturi, Brescia, La Scuola, 1946; M. Dal Pra, Il pensiero di Sebastiano Maturi, Milano, Bocca, 1943; Benedetto Croce-Sebastiano Maturi, Carteggio, 1898-1915, a cura di F. Rizzo, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1999.
7 A. Cristallini, Il pensiero filosofico di Donato Jaja, Padova, Cedam, 1970; A.R. Leone, Il pensiero filosofico di Donato Jaja, Bari, Adriatica 1972.
8 G. Gentile, Opere filosofiche, cit., p. 405.
9 G. Gentile-D. Jaja, Carteggio, a cura di M. Sandirocco, 2 voll., Firenze, Sansoni, 1969.
10 Cfr. Benedetto Croce-Sebastiano Maturi, Carteggio, cit.; sulla critica di Maturi all’attualismo si veda p. e. l’inedito Zibaldone. Il principio assoluto e il metodo di esso. Volume I,Biblioteca nazionale di Napoli, Carte Maturi, Ba 3(4.
11 Napoli, Stab. tip. della R. Universita Alfonso Tessitore e figlio, 1903 (ora anche in Opere filosofiche, cit., pp. 247-265).
12 Cfr. C. Bonomo, La prima formazione del pensiero filosofico di Giovanni Gentile, in Giovanni Gentile. La vita e il pensiero, a c. della Fondazione G. Gentile per gli studi filosofici, vol. XIV, Firenze, Sansoni 1972; A. Schinaia, L'interpretazione gentiliana di Kant nel «Rosmini e Gioberti» e la prima formazione dell'attualismo, «Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici», VI, 1979/1980, pp. 175-239; F. Rizzo Celona, Il giovane Gentile e Donato Jaja, in Da un secolo all’altro. Figure e problemi della filosofia italiana tra Otto e Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1994, pp. 57-76; A. Passoni, Donato Jaja nella formazione di Giovanni Gentile. Il problema del metodo tra critica gnoseologica e deduzione metafisica, «Rivista di storia della filosofia», LV, 2000, pp. 205-228. Numerose anche le edizioni di careggi, come M. Alessandra Degl'Innocenti Venturini, Donato Jaja nel carteggio con M. Florenzi Waddington, «Atti dell'Accademia di scienze morali e politiche di Napoli», LXXXIX, 1978, pp. 385-409; S. Miccolis, Dieci lettere inedite di Donato Jaja, «Giornale critico della filosofia italiana», 1980, pp. 47-62; A. Schinaia, Due lettere di Donato Jaja e Sebastiano Maturi, «Annali dell'Istituto italiano per gli studi storici», IX, 1985/1986, pp. 223-233. Per parte nostra abbiamo anche sottolineato le frattura storica, culturale e psicologica che separa già il giovane Gentile, teso ad affrontare problemi solo marginalmente riconducibili a quelli del maestro, in Gentile e Jaja, «Giornale critico della filosofia italiana», 1995, pp. 42-64.
13 D. Spanio, Idealismo e metafisica. Coscienza, realtà e divenire nell’attualismo gentiliano, prefaz. di E. Severino, Padova, Il Poligrafo, 2003; sul volume sono da vedere ora le acute osservazioni e le riserve di M. Visentin, Alcuni recenti studi sul pensiero attualistico, «Giornale critico della filosofia italiana», 2005, pp. 568-580.
14 D. Spanio, op. cit., pp. 273 sgg., 291 sgg.., 303 sgg.
15 M. Visentin, art. cit., pp. 573 sgg.: l’A. aveva già avanzato la tesi in il quale ribadisce – come già aveva suggerito nel volume Il neoparmenidismo italiano. I. Le premesse storiche e filosofiche: Croce e Gentile, Napoli, Bibliopolis, 2005, particolarmente pp. 64 sgg.
16 D. Jaja, Saggi filosofici, Napoli, Morano, 1886, pp. 54-5, 61, 200.
17 G. Gentile, Le origini,cit.; L'esperienza pura e la realtà storica, in Opere filosofiche, cit., pp. 425-6.
19 Cfr. D. Jaja, Ricerca speculativa. Teoria del conoscere, I, Pisa, Spoerri, 1893, capp. VIII-IX.
20 G. Gentile, Le origini,cit., p. 228.
21 Cfr. p. e. D. Jaja, Sentire e pensare. L’idealismo nuovo e la realtà, Napoli, Tip. della R. Università, 1886, pp. 113, 134-5.
22 D. Jaja, Saggi filosofici, cit., p.160.
23 D. Jaja, Ricerca speculativa, cit. pp. 83, 89,112, 114, 117, 147.
24 Cfr. E. Garin, Introduzione a G. Gentile, Opere filosofiche, cit., p. 47. Da condividere anche il ridimensionamento (ivi) del significato di un passo di una lettera di Gentile a Jaja (del 7 ottobre 1897, in G. Gentile-D. Jaja, Carteggio, cit., I,p. 38), troppo spesso citato e invero assai generico.
25 Roma-Bari, Laterza, 1973.
26 Cfr, G. Oldrini, Tardi epigoni dell'hegelismo napoletano: Jaja e Maturi [1984], in Napoli e i suoi filosofi, Milano, Angeli 1990, pp. 275-292.
27 B. Spaventa, Esperienza e metafisica, a cura di D. Jaja, Torino, Loescher 1888.
28 R.H. Lotze, Elementi di psicologia speculativa. Traduzione italiana di Bertrando Spaventa, a cura di D. D'Orsi, D'Anna, Messina-Firenze 1984, pp. 321-322; cfr. quanto abbiamo argomentato in L'aurea catena, cit., p. 78.
29 G. Cotroneo, La scuola di Spaventa, in Bertrando Spaventa. Dalla scienza della logica alla logica della scienza, a cura di R. Franchini, Napoli, Pironti, 1986, pp. 161-185 (ora in L’ingresso nella modernità. Momenti della filosofia italiana tra Ottocento e Novecento, Napoli, Morano, 1992).
30 R.H. Lotze, Elementi di psicologia speculativa. Traduzione italiana di Bertrando Spaventa, a cura di D. D'Orsi, D'Anna, Messina-Firenze 1984, pp. 309-316. Sui manoscritti spaventiani, tra cui questo ora citato, è in corso di pubblicazione un nostro lavoro (Manoscritti spaventiani nella Biblioteca nazionale di Roma) sul «Giornale critico della filosofia italiana».
31 G. Oldrini, Napoli e i suoi filosofi, cit., p. 276.
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