La formazione degli archivi ecclesiastici delle autorità e comunità regionali si svolge parallelamente allo sviluppo degli archivi pontifici e degli archivi pubblici. 1 primi tra gli archivi ecclesiastici a formarsi furono gli archivi vescovili e quelli capitolari. Nei canoni dei Concili più antichi (per esempio quello di Calcedonia dell'anno 451 e quello Niceno II dell'anno 787) si trovano prescrizioni riguardanti la corretta amministrazione dei beni della Chiesa e dei monasteri. Tuttavia, man mano che l'autorità del vescovo si definì sempre più, si cominciò a prescrivere la redazione di documenti che ne attestassero le azioni di carattere amministrativo e giudiziario, soprattutto quelle a difesa dei diritti delle chiese, dei chierici, dei monaci, e delle categorie che proprio nel vescovo avevano il loro difensore naturale. In altri Concili posteriori si trovano disposizioni sulla produzione e la tenuta degli atti da parte dei vescovi: sia sufficiente ricordare a tal proposito il Concilio Lateranense I dell'anno 1123 ed il Lateranense IV dell'anno 1215. Intorno alla metà del XV secolo gli archivi vescovili costituivano una realtà oramai consolidata, anche se di essi si continuò a parlare in maniera indiretta ed oscura nella relativa documentazione. In una introduzione generale, come questa vuole essere sulla storia degli archivi vescovili, non va taciuta la pratica, molto diffusa nella fase più antica, di conservare spesso le carte di governo del vescovo presso gli archivi capitolari. Fenomeno che si può spiegare con la contiguità fisica tra vescovo e canonici: è risaputo che il "capitolo" trasse origine dal presbyterium, cioè dall'insieme del clero locale che costituiva il senato del vescovo e che aveva la funzione di aiutarlo nella gestione del culto e dell'amministrazione diocesana, praticando in molte regioni la convivenza in comune nella stessa casa. Parallela alla conservazione si svolge anche la legislazione ecclesiastica, mirante soprattutto a salvaguardare l'originaria costituzione di questi archivi e ad instaurare una inventariazione classificata. La normativa prevede l’inventariazione di tutti i possessi delle chiese per mantenere integra la proprietà e pene per coloro che sottraggono o disperdono il materiale documentario dei depositi ecclesiastici. L’attuale classificazione degli archivi in diocesani, capitolari, parrocchiali ecc., si riallaccia all'evoluzione di tutta la legislazione in materia, susseguente alle disposizioni emanate dal concilio provinciale di Benevento nel secolo XIV. che rimane viva nel secolo XV, fino ai decreti emanati dal Concilio di Trento nel 1563. Fu, infatti, il Concilio di Trento (1545-1563) a rinnovare il funzionamento delle istituzioni ecclesiastiche, e quindi anche delle diocesi. Tra le decisioni più importanti vanno ricordate la destinazione pastorale delle diocesi, la qualificazione degli uffici del vescovo (residenza, sinodo diocesano, visita pastorale, controllo delle ordinazioni sacre), la cura pastorale e l’obbligo della residenza. Il vescovo doveva risiedere nella diocesi per stare insieme ai fedeli e per conoscerli attraverso la visita almeno biennale alle parrocchie. Le direttive del governo pastorale dovevano essere promulgate dal vescovo nel Sinodo diocesano annuale. Al fine di preparare i giovani agli ordini sacri e al ministero pastorale, il Concilio istituì il seminario in ogni diocesi. Circa i doveri specifici del vescovo, le disposizioni tridentine stabilirono che egli aveva la potestà di controllare l’operato dei notai e di esonerarli dalla loro funzione, doveva visitare tutte le istituzioni ecclesiastiche esistenti nel territorio della diocesi (visita pastorale), e aveva l’obbligo di controllare i monasteri femminili. Si discusse anche della opportunità di istituire un archivio di concentrazione, una specie di archivio diocesano, ma non se ne fece nulla. Questo Concilio, con l’attribuzione di compiti specifici al vescovo e alla sua curia, istituì l'ossatura portante del governo delle diocesi. E tutto ciò ebbe una inevitabile ripercussione sulla produzione e conservazione dei documenti. Per la definizione e la gestione dei complessi archivistici ecclesiastici bisogna, tuttavia, attendere la costituzione apostolica Maxima vigilantia di papa Benedetto XIII, emanata il 14 giugno 1727, che ha rappresentato la normativa rimasta in vigore fino al Codex Iuris Canonici pio-benedettino del 1917. La Maxima vigilantia ordina l’istituzione di archivi presso le diocesi, i capitoli delle chiese cattedrali e quelli della chiese collegiate, presso monasteri e conventi, conservatori e collegi, seminari, congregazioni, confraternite, ospedali, monti di pietà e luoghi pii; detta precise regole per l’inventariazione, custodia, ispezione, recupero e tutela degli atti, con tale larghezza di vedute e comprensione dell’importanza del problema che, se fossero state realmente eseguite, gli archivi ecclesiastici non si sarebbero ridotti nello stato in cui oggi spesso si trovano. Nell'annessa lnstructio italica si stabilì quali fossero le scritture da conservarsi negli archivi dei vescovi, oltre a quelle che generalmente erano conservate in qualsiasi archivio ecclesiastico. Si tratta di un vero e proprio titolario che è servito per molti anni come guida della strutturazione di molti archivi vescovili. Sostanzialmente, come si è accennato, le cose rimasero invariate fino al 1917, quando papa Benedetto XV promulgò il Codex Iuris Canonici. Venne così disciplinato con una certa organicità solo l’archivio episcopale, in quanto fu considerato un modello per gli altri archivi ecclesiastici. Gli obiettivi di questa disciplina furono prevalentemente quelli di impedire la dispersione delle carte e di garantirne una buona conservazione (archivio collocato in luogo chiuso e sicuro; accesso autorizzato solo con permesso del vescovo o del vicario generale o del cancelliere; ordinamento cronologico e inventariazione delle carte ad opera del cancelliere). Tale normativa è stata lievemente modificata nel 1983, con la promulgazione del nuovo Codex Iuris Canonici da parte di papa Giovanni Paolo II. Nella ridefinizione della struttura amministrativa e burocratica delle diocesi (cann. 469-474), è stato dedicato un certo spazio anche all’archivio vescovile, per il quale, in verità, l’unica innovazione veramente importante rispetto al passato riguarda l’obbligo imposto al vescovo diocesano di istituire Varchivum historicum (can. 491 § 2). Le serie documentarie più importanti che di solito sono conservate negli archivi vescovili sono: visite pastorali, visite ad limina (in particolare le copie delle relazioni e le risposte), editti; inventari di beni stabili, mobili, semoventi; bolle ordinarie e apostoliche; copie autentiche dei libri parrocchiali; scritture relative a beatificazioni, canonizzazioni e culto dei servi di Dio; ordinazioni o collazioni degli ordini, chiese, parrocchie, cappelle e fonti battesimali; luoghi pii; altari, cimiteri e campane; seminari ed altri istituti di istruzione; sinodi, concili provinciali e diocesani; processi; si possono inoltre trovare protocolli notarili, copialettere e libri liturgici. Devono essere conservate nell’archivio segreto la cui costituzione è prevista dal can. 489 del codex 1983, le dispense matrimoniali in foro interno non sacramentale; i registri dei matrimonia conscientiae e quelli di battesimo destinati a provare la legittimità dei figli nati da tali nozze, le note riservate sui seminaristi, sugli ecclesiastici, i carteggi processuali, le ammonizioni per modum poenae, le sospensioni ab officio vel ab exercitio ordinum ex informata conscientia. Quindi l’archivio diocesano risulta diviso in due sezioni distinte:
- a) - La sezione publica, nella quale sono raccolti e custoditi gli atti accessibili a chiunque ne abbia interesse. La custodia è affidata al cancellarius di nomina vescovile, che deve essere un sacerdote integrae famae et omni suspicione maior, che funge ipso iure anche da notaio della curia e il cui ufficio è ad nu- tum amovibile. In caso di necessità gli può essere dato come aiutante un vice cancellarius (cann. 482; 483, par. 2; 485).
b) - La sezione segreta nella quale vengono raccolti e custoditi tutti quegli atti che per la loro natura o per prescrizione di legge debbono rimanere segreti. Di tale archivio la chiave è affidata al vescovo (can. 490, par. 1).
Vi è la tendenza ad aggregare all’archivio vescovile diversi fondi per evitarne la dispersione e per favorirne la consultazione. Fra questi si citano l’archivio della «mensa vescovile», gli archivi privati dei vescovi, gli archivi di seminari e scuole, di confraternite, di persone, di associazioni. Un discorso a parte meritano i libri canonici che vengono depositati nell’archivio diocesano o a seguito della soppressione di una parrocchia o per cautelarsi contro probabili dispersioni, allorché la custodia non può essere assicurata dal parroco per diverse ragioni. Nel primo caso riteniamo opportuno che i registri siano restituiti alle parrocchie subentrate nel territorio che hanno ereditato il territorio prima attribuito a quelle soppresse e che, quindi, ne garantiscono la continuità. Nel secondo caso la restituzione dovrebbe avvenire non appena superata la situazione di precarietà che ne aveva giustificato il deposito. La Chiesa potrebbe avviare in proposito un discorso più radicale, riconoscendo funzioni di archivio di concentrazione a quello vescovile e facendovi confluire tutta la documentazione più antica conservata nelle parrocchie. Ciò potrebbe indubbiamente favorire le ricerche di carattere generale, ma nel contempo verrebbe a depauperare il territorio parrocchiale di un patrimonio documentario ivi prodotto e a volte unico, esistente «in loco». Per completezza d’esposizione si ritiene opportuno valutare in quale misura la legislazione statale possa essere richiamata in tema di archivi ecclesiastici. In seguito all’art. 30 del Concordato del 1929, che esclude ogni ingerenza dello Stato nella gestione dei «beni appartenenti a qualsiasi istituto ecclesiastico o associazione religiosa», le Soprintendenze archivistiche si sono quasi sempre astenute dall’esercitare i loro compiti istituzionali di vigilanza sugli archivi ecclesiastici. La legge del 1 giugno 1939, n. 1089, in materia di tutela del patrimonio artistico e culturale, ammetteva la necessità dell’intervento delle autorità civili, soprattutto per salvaguardare la conservazione dei manoscritti, autografi, carteggi, documenti notarili, ecc., di natura ecclesiastica. Tutti gli scrittori che si sono occupati di questa materia hanno assai spesso fatto voti, affinché Stato e Chiesa giungessero ad un accordo per una chiara definizione della condizione giuridica degli archivi ecclesiastici. In effetti nel concordato del 18 febbraio 1984 si è convenuto (art. 12) che «la conservazione e la consultazione degli archivi di interesse storico e delle biblioteche dei medesimi enti e istituzioni saranno favorite e agevolate sulla base di intese tra i competenti organi delle due Parti». In attuazione dell’art. 12 del Concordato del 1984, il 18 aprile 2000 è stata stipulata una «intesa tra il Ministero per i Beni e le Attività Culturali e il Presidente della Conferenza Episcopale Italiana relativa alla conservazione e consultazione degli archivi d’interesse storico e delle biblioteche degli enti e istituzioni ecclesiastiche» resa esecutiva in Italia con d.p.r. 16 maggio 2000, n. 189.
L’intesa è divisa in due parti, di cui la prima (articoli 1-4) relativa agli “archivi d’interesse storico”, la seconda (articoli 5-8) alle biblioteche, più una terza parte (articoli 9-10) di disposizioni finali. D'interesse storico sono considerati ai fini dell’intesa (art. 1, comma 1), «gli archivi appartenenti a enti e istituzioni ecclesiastiche in cui siano considerati documenti di data anteriore agli ultimi settanta anni, nonché gli archivi appartenenti ai medesimi enti e istituzioni dichiarati di notevole interesse storico ai sensi della normativa civile vigente». La normativa che dalla stessa terminologia («documenti di data anteriore agli ultimi settanta anni», archivi «dichiarati di notevole interesse storico») risulta modellata su quella degli archivi privati civili, anche se una parte degli “enti e istituzioni” di cui tratta l’intesa possono avere natura pubblicistica non secondo il diritto dello Stato, ma secondo quello della Chiesa (“pubblici”, per esempio secondo il diritto “canonico” sono gli archivi vescovili). Non sono pochi coloro che hanno ritenuto la formulazione dell’art. 12 perfettamente coerente con l’art.7 della Costituzione della Repubblica laddove si sancisce la reciproca indipendenza e, nel contempo, la concorrente competenza tra Stato e Chiesa, specialmente sulla base della constatazione che i Beni culturali della Chiesa sono inscindibilmente connotati dalle due valenze di «culturale» e di «religioso» insieme e che la concorrente volontà dei due ordinamenti trova il suo humus naturale nella stessa natura di questi beni.
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