La conquista normanna dell'Italia meridionale ha segnato la storia della nostra terra più di quanto normalmente si creda. Se per l'Europa cristiana poté nascere la leggenda dell'anno Mille, in cui gli uomini si sarebbero ridestati con una rinnovata speranza dopo la paura della catastrofe del mondo che le profezie millenarie avevano diffuso, per il Mezzogiorno d'Italia e soprattutto per la Puglia l'inizio del secondo Millennio rappresentò tutt'altro che una leggenda escatologica, rappresentò l'inizio di una trasformazione politica, etnica, culturale che avrebbe contato al di là della caducità con cui le successive conquiste e dominazioni si sarebbero succedute per secoli. Con la conquista normanna quasi tutto il Meridione, tranne alcune isole bizantine e longobarde, e quindi in particolare la Puglia, passava complessivamente dall'egemonia orientale dei Bizantini all'Occidente europeo, per rimanere a lungo, oltre i limiti della dominazione normanna, in quell'orbita, l'orbita appunto dell'Europa occidentale, perché i Normanni, uomini del Nord e affini ai Vichinghi, in realtà erano quelle stirpi nordiche che si erano stanziate e stabilizzate nell'odierna Francia e Inghilterra. Furono loro l'anima delle prime Crociate intese a frenare l'avanzata dei Saraceni in concomitanza con l'offensiva francese in Spagna per la riconquista della penisola iberica. L'Italia meridionale sarebbe passata dai Normanni agli Svevi che ne continuarono la tradizione, poi agli Angioini anch'essi provenienti dal cuore dell'Europa occidentale, poi agli Spagnoli che costituiranno per due secoli il baluardo contro l'Africa e il Medio Oriente musulmani, poi agli Austriaci che nella penisola italiana e nella penisola balcanica terranno a bada l'impero ottomano. Lo schieramento occidentale della Puglia, nella politica e nella cultura, è cominciato nel primo secolo del secondo Millennio proprio con i Normanni, che rappresentavano la tradizione latina nei confronti della tradizione greca e araba, tanto che lo sforzo attuale di riaprire all'Oriente la nostra regione sulla base non di un flusso culturale, ma di un flusso migratorio che ha, ovviamente le sue ragioni che non dobbiamo discutere in questa circostanza, è una inversione di tendenza. Napoli e Bologna, che sono state per secoli i punti di riferimento culturali della nostra provincia, appartengono anch'esse alla cultura latina occidentale. E questo deve farci anche riflettere sulla distorsione avvenuta del mito famoso di san Nicola, che non rappresenta affatto un segno del legame di Bari con l'Oriente, ma appunto il simbolo, maturatosi alla fine del primo secolo del secondo Millennio, e in relazione con la conquista normanna, della occidentalizzazione e latinizzazione della provincia barese. Le ossa di un santo destinato a una notevole fortuna nelle sacre rappresentazioni in lingua neolatina, in Francia soprattutto, sottratte agli orientali per essere conservate in una basilica costruita dai Normanni di fronte al baluardo bizantino, rappresentano una scelta significativa, qualunque sia il nostro giudizio sulla opportunità di difendersi dall'oriente che subiva le Crociate ma ci inviava le scorribande saracene che terrorizzavano le coste pugliesi. Purtroppo, e dico purtroppo, nei secoli successivi questo atteggiamento, sul piano dell'alta cultura, significò che nell'Adriatico diventasse Venezia la promotrice di un ravvicinamento col modo greco-bizantino e il centro d'irradiazione di una cultura umanistica nuova, la quale dovrà attendere il Rinascimento per manifestarsi, né in Puglia quell'orientamento rinascimentale fu recepito se non episodicamente. Il rapporto con l'Oriente fu monopolizzato da Venezia e perfino da Firenze, non da Napoli e dalle province meridionali. Frattanto, fra i secoli XI e XII, la civiltà, soprattutto nelle nostre regioni, passava attraverso la feudalità introdotta dai Normanni come una forma molto duratura di organizzazione sociale e territoriale, e attraverso l'acquisizione della cultura latina e neolatina che s'irradiava dalla Francia, vero centro dell'Europa durante il declino del Sacro Romano Impero.
Tutto questo andava detto perché il libro di Dora Liguori, di cui dobbiamo parlare, è incentrato su una vicenda che coinvolge un feudo normanno in provincia di Bari, Coversano, e un feudo normanno nell'Occidente europeo; coinvolge - come vedremo - i rapporti di cultura fra greci e latini, coinvolge il rilevante flusso delle Crociate; e fa riferimento ai grandi eventi fra XI e XII secolo, cui è dedicata una sintesi storica premessa al racconto con giudizi opportuni sui quali torneremo, sviluppando attraverso quella che si potrebbe pur chiamare una microstoria se non fosse per i personaggi di rango e di notevole fama evocati, un'interpretazione di quei tempi. Romanzo storico si direbbe il genere di questo libro, nel senso più moderno che questo genere ha assunto come contributo alla comprensione di un fatto, tentativo di dissiparne i lati oscuri ed incerti, sforzo di render vivo e vero mediante l'immaginazione o la divinazione che è - come dovrebbe essere chiaro - ben più probante del nudo documento, il significato della storia.
E infatti la storia di Sibilla d'Altavilla, contessa di Conversano e duchessa di Normandia, figlia del conte Goffredo del ramo pugliese dei Normanni andata sposa a Roberto duca di Normandia e figlio di Guglielmo il conquistatore, ha permesso alla nostra scrittrice di dare un senso all'oscuro rapporto culturale che certamente si instaura fra Mezzogiorno d'Italia e regni settentrionali emersi dalla disgregazione del "Sacro romano impero", sullo sfondo di una trasformazione profonda della mappa politica europea e di una sconcertante vicenda, quale fu la prima crociata, destinata a incidere sulle relazioni fra occidente ed oriente. Un nome, quello di Sibilla, che compare negli alberi genealogici della stirpe normanna e la cui data di morte (1102) è incisa sulla lapide del suo sepolcro nella cattedrale di Rouen, in cui è registrata la sua acerba morte dopo il secondo anno di matrimonio. Un documento sicuro, questo, come lo sono le cronache che hanno tramandato il soprannome di Roberto (Cortacoscia), le date della sua vita (1054-1134), la sua partecipazione alle crociate, la sua sconfitta da parte del fratello Enrico e la sventurata fine aggravata da un penoso malessere psichico. Ma i documenti scarni, ancorché sicuri, non fanno storia; la storia è interpretazione di cause, indagine sulle modalità con cui gli eventi si possono essere svolti, ipotesi sugli esiti e sulla valenza umana delle azioni: cose che spesso si confondono con l'immaginazione, e sono immaginazione come l'interpretazione critica o il commento di un testo letterario o di un pensiero filosofico.
Dora Liguori, cultrice di storia, sia pur avvezza a interpretare vicende a noi più vicine, sapeva bene - io penso - che i dati più certi e numerosi che offrono i documenti della storia contemporanea hanno anch'essi bisogno di essere spiegati con l'introspezione, con lo sforzo di andare al cuore delle azioni dell'uomo, quando il narratore - perché lo storico è comunque un narratore - supera il livello statistico e archivistico, né vuol limitarsi a registrare avvenimenti esterni e tessere una trama fattuale. Di fronte ad una documentazione più scarna come quella che offriva la minuscola storia di Sibilla, condensata in una lapide che registrava un matrimonio altolocato di breve durata, di fronte ad una serie di annotazioni sulla identità della famiglia, sul carattere instabile, sul valore e sul tracollo dei duca di Normandia, sulla espansione del regno normanno d'Inghilterra sul continente ai confini con il regno dei Franchi, le soluzioni di uno scrittore erano, come sempre, o reinventare il tutto ponendosi sul piano del fantastico, e fare del Medioevo una mera occasione narrativa, o mescolare arbitrariamente notizie vere con invenzioni verosimili, per collegare il piacere della curiosità storica col piacere dell'amplificazione immaginosa e attualizzante. Le notizie tramandate erano tali, invece, da sollecitare chi ha sensibilità storica, a porsi degli interrogativi: anzitutto la morte prematura di una giovane sposa di alto lignaggio, l'onore tributato ad una straniera divenuta duchessa nella culla della nazione normanna in un momento difficile in cui giocavano appetiti e questioni dinastiche; l'importanza che andava acquistando il centro anche ecclesiastico di Rouen nel periodo in cui si verificava nei grandi centri monastici della Francia e nella stessa capitale del regno una vera rivoluzione culturale che avrebbe portato a quello che è stato denominato il Rinascimento del secolo XII; la défaillance di un signore feudale che era stato un guerriero famoso e che si era distinto nella più grande vicenda del secolo quale fu la Crociata; il ruolo che in una vicenda privata poteva aver avuto la corte, questa straordinaria istituzione medievale che segnerà anche la storia del nostro Rinascimento, e dalla quale non si può prescindere quando si parla della vita dei regnanti e della politica degli stati.
E vi era anzitutto il ruolo di un feudo come quello di Conversano, importante sede normanna, ma vicina alla Bari marinara e collegata con la cultura bizantina; in un territorio che fungeva da tramite per i viaggi crociati, come ancora oggi è lo scalo europeo per raggiungere l'oriente greco. C'era poi Sibilla, questo nome un po' misterioso trovato su una lapide della Normandia, Sibilla "gentis olim delicium / dein desiderium / nunc cinis /.serius revictura". Le parole che la immortalavano tradiscono una mano colta e un'affettuosa anima di poeta: quella che il popolo ha amato e di cui ora sente la mancanza, è ora cenere, ma un tempo ritornerà in vita. La lapide è un problema da decifrare, non uno spunto da amplificare. Così ci spieghiamo l'impegno posto da Dora Liguori nel tessere un racconto raramente intessuto di squarci paesaggistici o di indugi romanzeschi: soprattutto nell'ultima parte, che ha il pregio di un racconto serrato, tutto teso a registrare o a sviluppare, con "misura" letteraria - si potrebbe dire - gli avvenimenti che possano dar conto della catastrofe. Ci spieghiamo il misurato abbandono al diversivo del dialogo, introdotto per la necessità di esplicare il senso dell'azione nell'animo dei personaggi, e connotato spesso di forme arcaizzanti ad evocare i tempi lontani e ricreare il contesto di una conversazione che talora avviene fra personaggi di diverso livello sociale e richiede quel po' di retorica circospezione, talora fra dignitari accorti che misurano l'espressione, talora si cala nell'intimità familiare e fin'anche amorosa giungendo a toccare le corde della malizia e dell'erotismo. Ma appunto si ha l'impressione di un impegno interpretativo per comprendere gli enigmi di una microstoria che ha al centro quella lapide, e da un lato un nome sibillino, dall'altro un personaggio storico dal carattere indecifrabile. Tutto ciò in una macrostoria non priva di interrogativi anch'essa, esposta a giudizi e a punti di vista diversi: la crociata, la sorte dei regni di Francia e d'Inghilterra, la latinizzazione dell'Occidente coincidente con l'avvio filosofico-teologico della cultura scolastica, lo sviluppo della feudalità fra il mestiere delle armi e l'organismo culturale della corte, la posizione delicata della Puglia normanna.
Una chiave di lettura non poteva essere che un'interpretazione letteraria che raccordasse questa complessa materia attraverso l'esaltazione di temi desunti dalla stessa cultura del tardo Medioevo, quale si riflette nell'immagine che ci rimane e quale è stata recuperata modernamente: la figura di un intellettuale nuovo che rispecchia le contraddizioni del secolo; la figura di una fanciulla che assomma le virtù della mente e del cuore, segno di riscatto della donna in un'epoca come la nostra attenta a recuperare una tradizione che possa giustificare l'operazione moderna di emancipazione, per di più in una situazione che ricorda, pur senza riprodurne assolutamente la storia singolare, il rapporto intellettuale e affettivo del celebre incontro epistolare fra Abelardo e Eloisa, modello di corrispondenza intellettuale e affettiva trasmessoci dal Medioevo colto; un uomo d'arme che è vinto d'amore e che per amore si eleva e si distrugge; il viaggio, quello del chierico vagante come quello di Roberto per la Terrasanta e di Sibilla per la Normandia, il viaggio che colma e che insieme evidenzia le distanze in quell'allora sconfinata Europa, e che nel Medioevo è appunto un motivo centrale della mentalità e dell'aspirazione collettiva, oltre che una diffusa pratica di vita.
Il filo conduttore di questa interpretazione è un personaggio tipico di questa stagione, si direbbe un eroe esemplare, se non fosse per il fatto che è concepito con una verisimiglianza storica perfetta, con tratti di realismo e di idealità, l'uno e l'altra misurati dal confronto col contesto, che ne fanno il punto di riferimento, anche artisticamente necessario, fra la prosaicità degli episodi politico-militari e la volgarità degli intrighi e il riverbero eroico-cavalleresco dell'amore e delle armi. Da una parte infatti si collocano il re Enrico, fratello di Roberto, teso semplicemente a impadronirsi anche illegittimamente del potere, e con lui la cortigiana impudica e intrigante che lo aiuta mossa da gelosia, vendetta e ambizione, dall'altra Roberto che intesse con Sibilla un vero e proprio idillio in sintonia con l'amore cortese, se non fosse per qualche scivolamento erotico che deriva piuttosto dall'esigenza di rispettare la identità del duca di Normandia, pervenuto alle nozze con la giovinetta dopo una vita libertina che lo ha reso incline anche alla gelosia ed esposto alla depravazione.
Voi compaesani di Sibilla mi permetterete, e la scrittrice mi perdonerà la simpatia per Demetrio, il greco rimasto da piccolo solo al mondo, educato in un centro di cultura monastica, avviatosi al chiericato e divenuto chierico vagante secondo un costume tipico dell'intellettualità laica medievale; approdato a Bari e affinatosi in Europa in centri come Cluny, tornato in Puglia e dedicatosi all'insegnamento, prima a Bari poi presso la corte conversanese di Goffredo come istitutore della giovanissima Sibilla. La sua ventura non solo spiega come la figlia del Conte abbia potuto far parlare di sé come prodigio di precoce saggezza, ma come abbia potuto far colpo sul guerriero normanno, prima per fama, poi in seguito al diretto incontro nel quale non si sa se la maturità del parlare o la casta bellezza abbiano avuto più forza nel piegare all'amore il rude normanno. Demetrio è quello che devotamente segue la sua giovane allieva quando sposa il duca e si trasferisce a Rouen, per continuare a sostenerla anche nel nuovo ruolo di operatrice culturale, di amministratrice del ducato in assenza, e quasi in sostituzione, del marito lontano per impegni militari, Demetrio è quello che con la sua furbizia - la scrittrice non dimentica di attribuirgli anche questa famosa qualità dei greci - dà anche consigli strategici all'esercito normanno, e che alla fine, dopo la morte della sua signora, trova pace in un monastero con la sua malinconica memoria di una vita al servizio di una persona intimamente amata d'un amore tutto intellettuale, e intimamente ricambiato e da entrambe le parti inespresso. Con Demetrio che si presenta a Conversano dal conte Goffredo si apre il racconto, che retrospettivamente ci informa dei suoi esordi e del suo primo quasi casuale accomodamento erotico e matrimoniale con una pescivendola di Bari; e con lui si chiude il racconto, con lui che vede nel cielo ripetutamente brillare una stella che forse gli ricorda Sibilla, inconsapevole che quello fosse un segno scelto da Sibilla e Roberto per ricordare il loro reciproco amore.
Quest'ultimo registro sentimentale segna il rapporto fra Sibilla contessa di Conversano e Roberto duca di Normandia. L'innamoramento nasce come in tanti racconti medievali, l'innamoramento per fama che s'incrociava ambiguamente con l'amore di terra lontana nelle rime di Jauffré Rudels. Lui, in viaggio per la Crociata, sente parlare di questa straordinaria creatura e passa da Conversano per conoscerla: dopo la presa di Gerusalemme tornerà per sposarla e portarla con sé in Normandia. Aveva rinunciato al regno di Gerusalemme, la patria lontana desiderata dai Cristiani, non rinuncia a Sibilla e sa da buon amatore, come da buon guerrieri che era, conquistarla. Forse non manca nella nostra scrittrice un'allusione di fondo a questa antitesi, perché in effetti la Crociata è da lei avvertita, sotto tanti aspetti giustamente, come un grande inganno dal quale molti si lasciarono attrarre per ricavarne poi un interesse, come Boemondo, pochi, e fra questi pochi Robero di Narmandia, si lasciarono affascinare per poi soffrirne ed entrare in una crisi profonda. Anzi è questo il dramma del romanzo, che proprio a questo punto è meno che mai un romanzo, nonostante l'ipotesi su cui si regge il racconto.
Roberto, che la storia ci ha trasmesso come uomo difficile, al limite della dissociazione psichica, pieno di qualità e di difetti, vincitore e sconfitto, diventa il simbolo concreto di una sorta di coscienza della Crociata nei suoi risvolti ingiusti e disumani. Quell'esperinza lo avrebbe ineluttabilmente segnato, e per quanto egli si sarebbe accorto dell'errore della Cristianità, l'orrore rimosso sarebbe esploso nell'abulia e nella debolezza della sua più tarda età. Sibilla potrebbe essere stata per lui una parentesi di vita autentica, fra la dissolutezza dei primi decenni e l'alienazione degli ultimi, questo impegno ad amare una persona alla quale, per quel poco che la tenne con sé, si era affidato anche nelle faccende dello stato, avrebbe rappresentato una terapia e un'immagine (o un'illusione?) di felicità. Certo la figura di Sibilla sembra un riflesso di un altro personaggio femminile incredibilmente precose, che da una ben nota pagina di storia dell'impero orientale è rimbalzato nella prima parte del nostro romanzo: Anna Comnena, che Dora Liguori immagina possa essere stata tanto vicina a Roberto nel suo viaggio a Gerusalemme da fargli dimentiacre la fanciulla lasciata a Conversano con la promessa di ricordarla guardando nel cielo brillare la stella di Venere. In effetti si ntratta di un altro di quei pretesti narrativi per far risaltare l'eccezionale dolcezza di una donna che né la cultura, né la pratica di governo, né le disavventure e le ostilità avrebbero distolto dall'essere anzitutto donna, capace di amare ad ogni livello, di conservare il riserbo come di offrirsi devotamente e completamente, di cogliere le sfumature seducenti del rapporto amoroso come di concepire delicate forme di gelosia, di essere severa senza precludersi la strada ad un'ironica malizia. Prima che cominciasse la sua vera e propria storia, la scrittice dice di lei: «Sembrava nata per l'amore, e le sue movenze languide ed eleganti, dimostravano quanto fosse disponibile al richiamo della natura; né la sua scienza le si poneva d'impaccio anzi, essa, diveniva dolcissimo strumento per meglio farle pregustare, ora con la fantasia e domani nel concreto, il piacere del divino abbandono amoroso».
Se Demedtro è la chiave del racconto, e Roberto il suo risvolto drammatico, Sibilla ne è il centro, nel senso che ne supporta i motivi ideali: l'incontro fra l'atavica civiltà italiana e il rinnovamento culturale della Francia circestense e parigina. Il piccolo giallo finale, che ci lascia dubbiosi se la prematura morte fosse dovuta al parto o al veneno, al destino di una donna provata o temuta, è coperto dal marmo dove è incisa l'epigrafe. A noi importa che questa epigrafe porti ancora a chiare lettere: Sibylla de Conversana apuliensis ortu, pugliese di origine. A Conversano è dedicata nel libro la rappresentazione di un corteo, che fa da pendent a quello dell'arrivo della sposa in Normandia; Conversano è in realtà presente più nel ricordo della patria lontana che nelle sue forme reali, forse è presente, senza esser nominata, quando in Normandia la bella stagione tardava ad arrivare e Sibilla percorreva le stanze del castello, eternamente infreddolita, anche se è difficile pensare che nel castello di Conversano sentisse meno freddo. Ma la scrittrice ci lascia con l'immagine della pietra tombale avvolta dai raggi del sole, che al professore assorto nella rievocazione onirica della triste storia fanno venire in mente versi latini dai quale forse è emersa l'immagine di Sibylla «tam dulcem et albam creaturam». La finzione del sogno che restituisce, caricandola di umanità e di imput ideali, quello che manca alla documentazione storica, serve ancora una volta a riconciliare alla storia la letteratura.
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