Un libro ben scritto, un libro di servizio, un libro che dilata l'anima. "Carteggio", ha voluto chiamarlo l'autore, parola dal sapore antico che rispecchia la prosa meditata, ma è ben più che un epistolario, anche se soprattutto lettere vi sono raccolte, perché è materia viva, una prova di coraggio, una denuncia ... un atto d'amore. Chi l'ha scritto ha avuto la sorte di incontrare "la Bestia Trionfante", un male per il quale non si è trovata ancora una cura. Un male perfido, che arriva strisciante nel pieno della maturità. Che ti prende a tradimento, che pochi riconoscono e i più non conoscono. Che procede lento, ma non si ferma, che pietrifica il corpo un pezzo alla volta ... che spegne la voce, ma, crudo paradosso, nella prigione del corpo, la mente è libera, mai così lucida, così vivace, con la vita tutta negli occhi. E con gli occhi, una lettera dell'alfabeto alla volta, indicata con il battito delle ciglia, guardando una lavagna, l'autore ha impresso i suoi pensieri, ha scritto agli amici, ha comunicato la sua energia, in una parola, al prezzo di una fatica spropositata e ad armi impari, ha accettato la sfida. Combatte da nove anni, Camillo Colapinto, un tempo lunghissimo per un malato di SLA, la sclerosi laterale amiotrofica, che la vita la misura a mesi. Ha imparato a "non aver rimpianti, a non invidiare i sani, né i malati più assistiti". Vive, come lui stesso dice, "non con serenità, ma con indignazione, senza rassegnarsi all'indifferenza ... e già che ci sono molte probabilità di vivere meno del dovuto, con una ragione in più per vivere intensamente quel che resta". Lascia di sasso, la tenacia, il rigore, perfino il senso dello humor, ma soprattutto la dignità. Di mestiere avvocato, Colapinto è concentrato sul caso più difficile della sua esistenza, che affronta da ogni angolazione e con ogni mezzo: documentato come un buon giornalista, pignolo come un ricercatore, idealista come un filosofo, pragmatico più di un politico di razza. Il suo traguardo è la difesa dei diritti di chi è vittima due volte: senza la speranza di una cura e afflitto dall'incuria. Sconfitta l'autocommiserazione, rifiuta la clemenza, perché vuole giustizia. E l'ostinazione moltiplica le forze, oltre i confini pur protettivi delle mura familiari - e quanta dolcezza, dolore e sacrificio conoscono quelle mura - oltre i muri del silenzio e dell'indifferenza. Ecco allora, come ai tempi in cui un muro di cemento divideva il mondo libero dall'impero del male, che Colapinto riesce a creare un tessuto di voci e un circuito di notizie alternativi. L'atmosfera e la carica emotiva evocano quasi i momenti epici dei samisdat, i libri proibiti, copiati con le macchine da scrivere e distribuiti clandestinamente all'indomani della Primavera di Praga. Allora, giovani e intellettuali si ribellarono al torpore delle coscienze, che imponeva un regime, oggi ammalati e loro familiari riempiono il vuoto dell'informazione e dei servizi con il fai da te, con il passaparola, con la voglia di resistere per non scivolare nella solitudine e nella rassegnazione. "Notizie positive dal fronte", scrive una delle tante corrispondenti dell'autore, comunicando un peggioramento minimo, che in questa malattia è già un successo e lui oramai "programmato a ricevere solo brutte notizie", risponde con sollecitudine, che siano lettere chilometriche o e-mail telegrafici. Trova comunque una parola di conforto, di sprone, consiglia, aggiorna. Magnifica la solidarietà e la confidenza tra persone che non si conoscono e probabilmente mai si conosceranno, inchiodate come sono dalla malattia, ma libere nello spirito. Straordinario il coraggio, che le rende perfino capaci di ironizzare sulla propria condizione. Diventa una pagina gustosa, quasi comica, il racconto che l'autore fa della sua progressiva spasticità e del prolasso della mandibola con "la lingua azzannata dai denti" e il dolore da urlo che rimane in gola; muove il sorriso anche la dichiarazione di sentirsi "clinicamente fidanzato" con una compagna di sventura, nelle sue lettere, sensibile e pungente, e ancora la descrizione del menù "dell'astronauta", ovvero la "colazione a base di farmaci" che da tempo ha sostituito il cappuccino, per arrivare, da buongustaio quale era, al sogno dei sapori, negati oramai dalla Peg. Ma nelle lettere non si parla solo della malattia, c'è spazio per l'arte, la storia, la letteratura. Colapinto è un lettore vorace e insaziabile, che continua ad alimentare la mente, già che il corpo è a dieta forzata. E il suo esempio è contagioso: "... noi assediati dalla morte, VIVIAMO!", dichiara con orgoglio una sua corrispondente e nella lettera di un familiare, che ha perduto un congiunto a causa della SLA, si legge: "... dopo cinque anni, ho trovato la forza di mettere sulla carta il mio dolore, di guardarlo in faccia..."; in un altro scritto: "... credo che lei sia un vero campione e continua a farci sentire (noi sani n.d.r) dei disabili...". Il linguaggio è asciutto, assente ogni ipocrisia o retorica, il dolore immanente eppure pudico, introflesso il lamento, ma la prosa cambia, diventa chiara e forte, quando si passa alla denuncia. Per troppo tempo la SLA è stata la malattia che non c'è. Pressoché ignota all'opinione pubblica, per carenze di documentazione e informazione, in secondo piano nel pianeta sanità, opaca anche nell'azione dell'associazione di riferimento. In sostanza, la SLA si esprime nell'equazione di una realtà brutale: poco da vivere, pochi malati = poche notizie, poche risorse, laddove l'incognita sulle cause rimane senza soluzione. E, fino a pochi anni fa, difficile da raggiungere anche la diagnosi, affidata a pochi specialisti e fatta la diagnosi, tuttora, poca l'assistenza per le famiglie e gli ammalati, abbandonati al loro destino. "Non mi sono mai doluto per essere stato colpito dalla SLA" - scrive Colapinto - "non mi sono mai domandato, perché proprio a me? ma l'indignazione, sì, di fronte al muro di silenzio e all'indifferenza, che condanna senza speranza chi viene colpito e che stravolge la vita della sua famiglia." E la sua indignazione, non paga del circuito dei samisdat, che intanto ha attivato, del continuo aggiornamento scientifico, dei tre libri che ha già scritto, del braccio di ferro contro la letargia del sistema sanitario e contro i medici impreparati o peggio sciacalli, non arretra dinanzi al fuoco delle polemiche sulla sperimentazione genetica. Anzi, da giacobino agnostico, quale si definisce, per difendere "dalla parte del malato" il diritto alla cura, si misura con la politica. Come un altro ammalato di SLA, Luca Coscioni, Camillo Colapinto si è candidato alle elezioni del 2001 nelle liste radicali. Ha subito l'umiliazione di vedersi escluso a causa della sua disabilità, (la richiesta considerata inammissibile perché mancava la firma autografa, apposta per procura dalla moglie) ha fatto ricorso, lo ha vinto, si è cimentato nella ennesima battaglia. Atipica la sua campagna elettorale, senza passare dalla tv, con pochi mezzi, nessuna spettacolarizzazione. "Non siamo telegenici e presentabili (a causa della malattia n.d.r)" commenta amaro in una lettera, "né facciamo spettacolo", ma usa le armi della sua intelligenza, della sua cultura e trova l'aiuto di amici e sostenitori disinteressati. I suoi discorsi viaggiano su Internet, accetta interviste, chiosa polemico: "l'autentica novità di queste elezioni è che per la prima volta malati di gravi patologie hanno dovuto personalmente scendere in campo affinché i grandi temi della vita e della morte trovino spazio nel dibattito politico". Tre i punti centrali del suo programma: diritto alla salute, ricerca scientifica, libertà di cura. "La mia lotta politica va proprio a vantaggio delle persone sane" - scrive in un appello agli elettori, letto dal figlio - "affinché in un futuro speriamo non lontano non corrano il pericolo di essere colpite da malattie oggi incurabili e inguaribili." Camillo Colapinto non viene eletto, ma ottiene 2.369 voti pari al 2,8 % della sua circoscrizione in Puglia, rispetto al 2,3% della media nazionale della Lista Bonino. Oggi, mentre continua il suo calvario, lui continua a scrivere. "Fino all'ultimo motoneurone". P.S. Ho letto il Carteggio nel corso di un viaggio in Turingia, fino all'ultima pagina. Era un pomeriggio piovoso, quasi nevicava, avevo il viso arrossato, non era il freddo. Ho anche pianto, ma per l'emozione e l'ammirazione che mi ha procurato un uomo che non conosco. Nel mio mestiere mi sono imbattuta in tante situazioni disperate nel nome di una causa giusta e poteva mancare tutto, ma non la dignità. Così questa volta. Nel dibattito in corso sui temi della bioetica, nel rispetto delle posizioni, credo che di una cosa si possa essere sicuri: non ci sarà argine che tenga alla ricerca, ma ogni ritardo è colpevole. E pur nel travaglio di temi così delicati è un dovere parlarne correttamente, senza pregiudizi e soprattutto senza stancarsi di farlo. Il mio augurio è che la "Bestia Trionfante", immagine presa in prestito da Giordano Bruno, sopravviva solo nel ricordo di una pagina scritta. E presto.
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