Due storie delicate e sensibili si intrecciano per aprirci discretamente al mondo della disabilità, della malattia e del dolore. Le chiavi di lettura sono nella scelta del registro oggettivo che determina un effetto di straniamento nei confronti del dolore: l’irruzione delle vicende biografiche dell’autrice così viene tenuta a freno dalla ricerca di equilibrio tra scrittura privata e letteratura.
L’ottica del racconto risulta rovesciata in entrambe le storie: nella prima, la protagonista non coincide con l’io narrante, funzione affidata ad un istruttore di nuoto, nella seconda invece la scelta della forma epistolare rende dialettico il ruolo del narratore e del protagonista. L’effetto straniante consente alla narratrice di penetrare con occhio introspettivo nella malattia e nell’impotenza che ne scaturisce, pur nella contraddittoria ricerca umana del diritto alla vita, mentre brevi cadenze temporali giornaliere scandiscono decisioni lente ma sagge. Il tempo della storia viene rallentato attraverso l’utilizzo di una fine tecnica visiva. “Taglia l’acqua” diventa pertanto un racconto per immagini, di quadri che racchiudono apparentemente gli stessi eventi, lezioni di nuoto, ma che lasciano tracce nel cuore e nella mente, proprio come il carteggio epistolare de “La dolce morte”, in cui lettere in arrivo e in partenza si scrivono e si leggono per veder cedere le resistenze di chi rifiuta l’eutanasia come risposta al dolore e alla malattia.
Dai due racconti emergono messaggi di intensità umana: il dono della vita è impareggiabile, non resta che viverlo con intensità, quando ci è dato di coglierlo, mentre ci si interroga se sia giusto negarlo quando la salute improvvisamente ha ceduto le sue difese |